Un filo sembra legare tra loro gli avvenimenti – intervenuti l’uno di seguito all’altro, che hanno funestato Parigi e Trieste ...
Un filo sembra legare tra loro gli avvenimenti – intervenuti l’uno di seguito all’altro, che hanno funestato Parigi e Trieste ...
Un filo sembra legare tra loro gli avvenimenti – intervenuti l’uno di seguito all’altro - che hanno funestato Parigi e Trieste: entrambi gli eccidi hanno avuto come scenario gli uffici delle Questure, entrambi sono stati commessi da immigrati – anche se nel caso l’attentatore del Quai des Orfèvres si tratta di un cittadino francese originario delle Antille Francesi - ed entrambi sono stati commessi ai danni di funzionari ed agenti della Polizia.
“Last but not least”, in ambedue i casi una prima spiegazione delle gesta criminali ne ha attribuito il movente ad un improvviso “raptus” di follia.
Da qualche tempo a questa parte, tutti gli attentati islamisti vengono spiegati in questo modo.
Il ragionamento è tanto semplice quanto fallace: se una persona senza precedenti penali si trasforma improvvisamente in un assassino, non può che essere impazzita.
Se però si accettasse questa tesi, la giustizia penale non sarebbe più in grado di procedere, ed anzi tanti più risulterebbe impotente quanto più gravi fossero i delitti compiuti.
La verità, tuttavia, ha finito per farsi strada: il “killer” della Prefettura di Polizia di Parigi aveva seguito un processo silenzioso di radicalizzazione che dalla conversione all’Islam lo ha portato a fare strage tra i colleghi.
Quanto risulta più grave, è che a costui fossero attribuiti dei compiti di “intelligence”.
Se questa circostanza venisse confermata, saremmo di fronte ad una nuova dimostrazione dell’impotenza propria di uno Stato di Diritto: il fatto che un cittadino professi una particolare fede religiosa non modifica per nulla i suoi diritti.
Soltanto nel corso delle guerre si è trasgredito questo principio, dando però luogo a gravissime aberrazioni.
Dopo l’attacco a Pearl Harbour, i cittadini statunitensi di origine giapponese vennero tutti quanti rinchiusi in campi di concentramento: in base ad un processo alle intenzioni, essi vennero considerati – senza nemmeno ammettere la prova contraria – come “quinte colonne” del nemico.
Le Autorità americane avrebbero dovuto in seguito risarcire queste persone, e presentare le proprie scuse per una misura che aveva violato i principi più elementari del Diritto.
L’attentatore di Parigi non poteva – per questi stessi motivi – venire allontanato dal suo incarico, né destituito dall’impiego, né tanto meno sottoposto ad un procedimento penale.
Tutt’al più, data la delicatezza dei compiti che gli erano attribuiti, si sarebbe potuto vigilare discretamente sulle sue frequentazioni e sulle sue inclinazioni.
Nessuno, tuttavia, può essere sanzionato perché prega, perché medita sulle Scritturo e perché frequenta un luogo di culto.
Resta il fatto che il confine tra l’adesione ad una particolare identità – nel caso del “killer” di Parigi ad una identità religiosa – ed il commettere dei gesti criminali risulta a volte molto labile.
Ci è capitato di ricordare, commentando casi analoghi occorsi nel passato, il famoso aneddoto dell’inglese che domanda all’irlandese che cosa sia l’IRA.
L’irlandese risponde: “Uno stato d’animo”.
Con questo, si intende significare che l’accumulo di ingiustizie, sedimentate tanto nella memoria collettiva quanto nella esperienza personale può spingere a gesti estremi anche persone mai segnalate per propositi di violenza, né tanto meno schedate quali simpatizzanti di formazioni eversive.
Si tratta di quanti vengono comunemente definiti come i “terroristi della porta accanto”.
Per giunta, in alcuni casi non si tratta nemmeno di persone dedite all’osservanza dei precetti religiosi: il terrorista di Nizza era dedito al bere, ed aveva a suo carico dei piccoli precedenti penali, ma solo per reati comuni.
Ora l’attenzione degli inquirenti di Parigi si concentrerà certamente sull’ambiente della moschea frequentata dall’assassino, e non mancherà chi attribuirà qualche responsabilità morale per l’accaduto ad un “Imam” particolarmente zelante nel ricordare ai suoi fedeli i doveri del buon musulmano.
Tali doveri non includono certamente gesti come quello compiuto dall’impiegato della Questura, ma certamente comprendono il divieto più tassativo di lasciarsi coinvolgere da certi aspetti del nostro modo di vivere.
Una volta, ci è capitato di ascoltare, con l’aiuto di un traduttore, una predica registrata proiettata in un luogo di culto islamico.
L’oratore ammoniva contro l’assunzione di bevande alcoliche e di droga, nonché contro il consumo di carne suina.
Naturalmente, non diceva che si deve usare la violenza contro chi tiene questi comportamenti.
Un predicatore cristiano di una volta non avrebbe usato – pronunziando un quaresimale – dei toni molto diversi.
Domandiamoci però quale effetto può avere questo tipo di discorsi su dei soggetti socialmente emarginati, di scarsa cultura, ma soprattutto privi di rapporti di frequentazioni con le persone di fede diversa.
Nostra moglie, che è indo-americana, pur essendo una persona di alto livello culturale, ha impiegato del tempo per realizzare che gli uomini bianchi, considerati individualmente, non sono necessariamente cattivi.
Chi si considera vittima di una discriminazione, ed in molti casi lo è realmente, può sentirsi portato a farsi giustizia con le proprie mani.
Veniamo dunque al caso di Trieste.
È noto che molte delle comunità straniere insediate in Italia, e più in generale nell’Europa Occidentale, hanno la propria mafia: proprio oggi i giornali denunziano come il “racket” della prostituzione sia controllato in gran parte da delinquenti albanesi.
Ciò, naturalmente, non significa che tutti gli stranieri appartengono alla delinquenza organizzata.
Significa però che ogni qualvolta essi si sentono emarginati o vittime di ingiustizia possono ricorrere ad essa in cerca di protezione.
A loro volta, le mafie agiscono con i metodi delle società iniziatiche.
Tipico è il caso di quella nigeriana, dove il rituale di affiliazione prevede che il “recipiendario” venga preso a bastonate e costretto ad uccidere un animale domestico per dare prova del suo coraggio.
I Dominicani, nazionalità cui appartiene l’assassino di Trieste, hanno – come le altre popolazioni di origine africana e di lingua spagnola dei Caraibi – una loro società iniziatica detta “Santeria”: si tratta dell’equivalente del “Vaudou” o “Voodoo” o “Vudu” haitiano e della “Macumba” brasiliana”.
A volte, il comportamento degli affiliati viene imposto attraverso i canali della mente: il che non significa, naturalmente, che si sia in presenza di una malattia mentale, ma certamente si determina una dipendenza psicologica.
Il “modus operandi” del “killer della Questura può far pensare che siamo di fronte ad uno di questi casi.
Probabilmente, l’uomo sarebbe stato al massimo denunziato a piede libero.
Improvvisamente, però, costui è passato da uno stato di apparente tranquillità ad una furia che ha moltiplicato la sua stessa forza fisica, portandolo ad abbattere al suolo due uomini robusti, a disarmarli e ad ucciderli con una freddezza impressionante.
Tempo fa, sulle Ferrovie Nord di Milano, alcuni dominicani staccarono un braccio con il “machete” al capotreno che chiedeva loro il biglietto: anche in questo caso, la loro violenza era risultata del tutto sproporzionata rispetto alla situazione.
Le indagini chiarirono subito che si trattava di affiliati ad una “pandilla”, cioè ad una “gang” giovanile.
In questo tipo di associazioni criminali ricorrono regolarmente i riti iniziatici propri della “Santeria”, i cui capi ordinano spesso agli adepti dei gesti violenti, al fine soprattutto di affermare il controllo territoriale.
La fotografia dell’assassino, postata da lui stesso se “Facebook”, mette in mostra un tatuaggio sul braccio - lasciato appositamente scoperto - che probabilmente raffigura il simbolo del gruppo cui egli appartiene: in caso di necessità, gli altri adepti sono tenuti a sostenerlo.
Si potrebbe addirittura ipotizzare che questa congrega abbia sacrificato di proposito un proprio componente per affermare la propria presenza ed il proprio potere criminale sulla città di Trieste e più in generale sull’Italia.
La società multiculturale è una necessità, ma nello stesso tempo è un rischio.
Conoscere i costumi dei Paesi di origine – che certamente non forniscono ai delinquenti né una giustificazione, né una attenuante – aiuta nella prevenzione dei reati.
Le categorie scientifiche della criminologia non sono eguali dovunque.
Se per la malavita europea vige sempre la regola in base alla quale non si deve mai causare un danno superiore al guadagno procurato dal reato commesso, questo naturalmente non vale nel caso del terrorismo religioso – in cui il beneficio per il delinquente è di ordine “spirituale” - ma nemmeno nel caso di certa delinquenza comune di origine esotica, in cui il delinquente deve dimostrare, nel momento in cui viene iniziato in una organizzazione criminale, il possesso di determinate qualità.
Se le cose stanno in questo modo, il dominicano di Trieste ha superato “summa cum laude” l’esame di ammissione.