Del potere un tempo detenuto dalle grandi Monarchie europee rimangono solo alcune tracce di carattere onorifico e cerimoniale: fino al Concilio, il galero, cioè il cappello riservato Cardinali (anch’esso abolito, come pure la “cappa magna”, sostenuta dai “caudatari”) veniva loro imposto - anziché dal Papa – dai Capi di Stato della Spagna, della Francia e dell’Austria quando si trattava di loro sudditi.
Il privilegio, nel caso della Francia e dell’Austria, fu ereditato dai Presidenti della Repubblica.
Avvenne così che quando il Nunzio a Parigi Angelo Giuseppe Roncalli venne creato Cardinale e destinato alla sede patriarcale di Venezia, dovette inginocchiarsi davanti a Vincent Auriol, massone dichiarato ma suo buon amico personale.
Il futuro Papa riuniva infatti una volta a settimana nella sua residenza i più eminenti intellettuali di Francia, molti dei quali atei, agnostici od affiliati alla Libera Muratoria: valga per tutti il nome di Edouard Herriot.
A questa congrega di spiriti illuminati, precursori della riconciliazione tra laici e Cattolici determinata più tardi dal Concilio, apparteneva per l’appunto anche l’allora Capo dello Stato.
Il quale, venuto in visita ufficiale in Italia, volle rivedere il suo vecchio amico recandosi appositamente a Venezia.
Un privilegio tuttora sussistente consiste nell’essere incluso il Re di Spagna, in qualità di Canonico Onorario, del Capitolo di Santa Maria Maggiore, ed il Presidente della Repubblica Francese in quello di San Giovanni in Laterano: dove quest’ultimo ha anche facoltà di entrare a cavallo.
Macron ha preso possesso del suo seggio, ma lo ha raggiunto camminando a piedi: non sappiamo se per modestia o in quanto non è dedito all’equitazione.
Pio X abolì il diritto di veto alla elezione di un Pontefice, in verità dopo averne involontariamente approfittato, essendo caduta la scelta del Conclave del 1903 sul Cardinale Rampolla del Tindaro.
Questi non poté accedere al Soglio in quanto fautore della Conciliazione con lo Stato italiano, la cui esistenza stessa non era mai stata digerita dall’Impero Austriaco: non già perché Vienna ambisse ancora al dominio su Milano e Venezia, bensì perché il fondamento dell’Italia unita risiedeva nella supposta volontà popolare, mentre quello della Duplice Monarchia era costituito dal principio – ritenuto sacro – di legittimità.
Il segreto del Conclave venne evidentemente rotto, dato che qualcuno riuscì a far giungere a Vienna la notizia del suo orientamento in favore di Rampolla del Tindaro.
Fu così che l’Ambasciata austriaca presso la Santa Sede fece entrare nel consesso la lettera con cui il veto veniva esercitato: in essa si asseriva che l’elezione di un Papa fautore della Conciliazione avrebbe fatto insorgere le popolazioni slave dell’Impero di fede cattolica.
Si trattava di un uso “ante litteram” delle “fake news”, ma diede comunque luogo all’ultimo soprassalto dell’Europa legittimista.
Pochi anni dopo, i conti con gli emergenti nazionalismi sarebbero stati regolati dapprima a Sarajevo e poi sui campi di battaglia di tutto il continente.
Abbiamo concluso il nostro precedente articolo, dedicato agli ultimi avvenimenti della Catalogna, domandandoci che cosa ne pensi il Papa.
La domanda, forse, non è stata posta in termini corretti.
Non contano infatti le personali opinioni di Bergoglio, uomo dedito ad affermare per l’America Latina il principio di autodeterminazione: la sua prima esperienza politica – quando aveva soltanto diciannove anni fu tragica - avendo visto gli aeroplani con le stelle e strisce degli Stati Uniti bombardare la “Casa Rosada” ponendo fine all’esperienza peronista.
Conta invece, in questo caso come sempre, il rapporto di forze: che il Papa, memore della sua dichiarata formazione giovanile marxista, ha imparato a calcolare ogni giorno, fin da quei tempi.
Mentre la Polizia reprimeva i manifestanti di Hong Kong, le Ambasciate cinesi nel mondo – e quella in Italia non ha fatto certamente eccezione – organizzavano conferenze stampa in cui la posizione del loro Governo, che accusa espressamente i dissidenti di “separatismo”, veniva illustrata ampiamente ed eloquentemente.
L’eloquenza consisteva in un argomento diplomaticamente sottaciuto, che si aggirava però come uno spettro sui giornalisti presenti: gli affari con Pechino.
Analogamente, accade che i giornali di questi giorni dedichino ampio spazio alle opinioni dei giuristi, dei politici e dei diplomatici che sostengono le tesi delle Autorità di Madrid.
Ai loro argomenti, se ne è aggiunto da qualche ora un altro: gli Indipendentisti catalani sarebbero dei violenti, per via di qualche pietra tirata incautamente sulle “Ramblas”, disturbando la “movida”.
La “Fuerza” è prontamente intervenuta, disperdendo i “subversivos”.
Anche se non giungono a definirli “enemigos de la Patria”, giornali di Madrid grondano comunque di retorica franchista.
Il malcapitato Torrà, Presidente in carica della Generalità, chiede pateticamente udienza al Re Filippo VI.
Ammesso che la ottenga, il loro sarà un dialogo tra sordi.
Forse, almeno sul piano della comprensione umana, le cose sarebbero state diverse se alla Zarzuela ci fosse stato ancora il vecchio Juan Carlos.
Di lui si disse che era il “Re dei Repubblicani”: una definizione encomiastica, ma sostanzialmente corretta se si considera che il futuro Sovrano dovette condividere l’esilio con i Repubblicani, trascorrendolo a Roma: dove comunque acquisì un’ottima conoscenza della nostra lingua.
Tempo fa, discorrendo con un amico di origine marocchina sulla differenza tra il francofono Hassan II, parigino di adozione e di formazione, e l’attuale Re Maometto VI, risultò che il nuovo Sovrano è invece uomo radicato in una cultura autoctona, e risente di una interpretazione restrittiva del pensiero islamico opposta al laicismo di suo padre.
Qualcosa di simile è avvenuto al di qua dello Stretto di Gibilterra: Filippo VI non è figlio dell’Europa illuminista e laica, bensì di una “Espana Profunda”, ancora chiusa nei suoi dogmi.
Forse riecheggia in lui, benché dissimulato dalla diplomazia, l’eco di quello spirito mozarabico che portava Franco ad immaginare il suo Paese proiettato verso il mondo arabo e verso le Americhe, restio a guardare al di là dei Pirenei.
Il “Caudillo” odiava i Catalani, e non ne faceva mistero.
Non solo e non tanto per via del separatismo, quanto perché li considerava permeati di una cultura irrimediabilmente diversa da quella castigliana: in Catalogna, tutti parlano il francese, ed è certamente più gradito il forestiero che si rivolge alla gente nella lingua di Molière anziché in quella di Cervantes.
Ora la Spagna getta nella disputa con la Catalogna il peso della sua influenza economica sull’Europa, ma anche – e questo argomento non può essere sottostimato in Vaticano – la sua qualifica di Nazione cattolica per eccellenza.
Se infatti la Francia è la “Figlia Primogenita” della Chiesa, la Spagna ha svolto il compito della cristianizzazione più estesa che si sia compiuta nella sua storia bimillenaria: più di un cattolico su due si esprime in castigliano, compreso Padre Bergoglio.
Tanto basta perché i Catalani si trovino ad affrontare un rapporto di forze completamente contrario alle loro aspirazioni.
Per giunta, la situazione dell’Europa Occidentale li pone nell’alternativa del diavolo: affidarsi alla resistenza passiva significa retrocedere, praticare la resistenza attiva vuole dire squalificarsi.
Vista retrospettivamente, la dichiarazione di Indipendenza assume le caratteristiche di un errore: certamente generoso, ma pur sempre tale.
Le iniziative di agitazione risultano a volte utili, ma dichiarare la secessione senza poterla realizzare equivale a sprecare l’unica freccia di cui si disponeva, oppure a dimostrare che la pistola era scarica.
Puigdemont, come abbiamo già scritto, sperava di costringere Madrid ad una trattativa, ma il suo insuccesso ha dimostrato invece che per l’Autorità centrale la linea dura risultava conveniente, anche mettendo in conto l’impopolarità in Europa di una sentenza ridicolmente draconiana.
Se però non si fa niente per i Curdi massacrati in massa, per gli Uiguri deportati a centinaia di migliaia, per i Ceceni decimati, per i Rohingya esiliati, per i Tibetani ridotti alla disperazione, non si muoverà certamente un dito per i Catalani.
I quali, se vogliono uscire dalla loro condizione di “won won”, come si dice in inglese, hanno davanti a sé una sola strada: quella non già della resistenza, bensì della resilienza.
Il sommo campione della resilienza è il Dalai Lama.
Il quale dimostra di saper usare il principio delle arti marziali, per cui si usa a proprio vantaggio la forza del nemico.
A parte l’opera di preservazione della cultura e della identità nazionale, che addirittura ha indotto molti Occidentali a farsi buddisti, da quando non lo possono più ricevere i Capi di Stato – compreso il Papa, che ha pagato questo prezzo per accordarsi con la Cina – il grande Monaco accresce per via di tale offesa il proprio prestigio.
Tanto più perché dice di capire le ragioni per cui viene ignorato.
Paradossalmente, tanto più lo si evita quanto più egli è importante.
Il mondo è tutto un vorticoso via vai di delegazioni: i cui componenti non vengono ricevuti per il loro rilievo, bensì ne vengono accreditati in quanto sono ricevuti.
Puigdemont è una sorta di appestato, con cui possono conferire soltanto i suoi Avvocati, proprio come avviene per i galeotti.
Perfino i giornalisti – a differenza di quanto avviene per il Dalai Lama – devono starne alla larga. Poco prima del referendum, una conferenza stampa indetta a Roma dal Ministro degli Esteri della Catalogna (attualmente in prigione) dovette precipitosamente cambiare sede, e le grandi testate – per non parlare degli esponenti politici - fecero a gara nel disertarla.
Noi fummo presenti.
Benché la Sala Stampa del Vaticano, dove svolgevamo all’epoca il nostro lavoro, fosse diretta da una collega spagnola, non successe assolutamente nulla.
Il resiliente, a differenza del resistente, vince in quanto sta al mondo.
Nessun addetto stampa, nessun diplomatico e nessun Governo potranno impedire alla Catalogna di continuare ad esistere.
L’inno nazionale della Polonia dice: “La Polonia non è ancora morta, perché noi siamo vivi”.
“Ad plurimos annos”, Presidente Puigdemont!
Tuesday, October 15, 2019