Al Capo della decadente Repubblica – accolto come un parente povero tra tanto splendore – venne domandato che cosa più lo avesse impressionato.
Il malcapitato pronunziò nella circostanza una delle due frasi universalmente note della nostra lingua regionale (l’altra essendo il più dignitoso “Che l’inse?” di Balilla).
Il poveretto disse “Mi chi”.
In italiano, si può tradurre nel modo seguente: “Mi stupisco che un morto di fame come me si trovi in un posto simile”.
Eravamo dunque fin da allora – malgrado gli orpelli ereditati da un passato glorioso – dei poveri provinciali.
“Il Secolo XIX” venne fondato dall’alta borghesia genovese alla fine dell’Ottocento, come espressione di una imprenditorialità che ancora riusciva a ritagliare nell’armamento mercantile i suoi spazi di manovra: l’industria – come abbiamo più volte avuto l’occasione di ricordare – era già a quei tempi di Stato; capitalismo assistito, si direbbe oggi.
Il Conte di Cavour, uomo particolarmente astuto, aveva trovato il modo di sottomettere gli indocili sudditi genovesi fin da prima dell’Unità, costituendo con denaro pubblico nella “Superba” (che ormai non aveva più nessun motivo per considerarsi tale) l’industria siderurgica del Piemonte, destinata a rifornire il più ampio Stato nazionale.
Il giornale di Genova riflette da tempo la decadenza della città: lo testimonia la sua patetica pubblicità, che reclamizza negozi di ombrelli e produttori del tipico pandolce locale.
I contenuti culturali sono ormai azzerati: morto Baget Bozzo, la Città di Mazzini pare avere esaurito anche la sua capacità di elaborare un pensiero filosofico e politico.
Rimane la figura del Cardinale Bagnasco, che però – a causa del nostro tipico “understatement” - si pronunzia soltanto in coincidenza con le solennità religiose.
Noi abbiamo avuto la fortuna di ascoltare e di commentare le sue omelie: i colleghi della stampa locale erano assenti, tanto a causa della tipica accidia che colpisce i decadenti quanto per via di un residuo di anticlericalismo, reso intellettualmente sterile dalla mancata circolazione delle idee.
Non deve dunque meravigliare che “Il Secolo XIX”, entrato nel grande calderone del gruppo editoriale comprendente anche “La Stampa” di Torino e “La Repubblica” di Roma, sia destinata a finire come il manzoniano vaso di coccio tra i vasi di ferro.
Basta sfogliare il quotidiano per accorgersi che ormai pubblica in gran parte gli stessi articoli de “La Stampa”, di cui si accinge a divenire l’edizione per la Liguria.
Nel Ponente, ormai da tempo immemorabile, soprattutto per via dell’insediamento dei Piemontesi, le vendite de “La Stampa” superano quelle del giornale genovese.
Alcuni clienti chiedono addirittura all’edicolante l’edizione di Torino, non essendo interessati a conoscere né i nostri incidenti automobilistici, né le imprese politiche di Scajola, detto il “Basotto” in riferimento tanto alla sua statura fisica quanto al livello intellettuale.
Anni or sono, “La Repubblica” acquistò “IL Lavoro”, che per qualche tempo ne divenne l’edizione genovese, per poi sparire completamente.
“Il Secolo XIX” è destinato a fare la stessa fine.
Quando si fondono le Società, due più due fa tre, nel senso che ne scapita sempre l’occupazione: già le redazioni di Imperia son state accorpate.
Ci dispiace per i lavoratori, ma il dibattito delle idee – tenuto conto del livello espresso qui da noi dal “Secolo” - non ne ha scapitato.
Da tempo, questo giornale si era ridotto a fare da altoparlante dei berlusconiani locali.
Ai quali ben si adatta il famoso aforisma di Oscar Wilde sul Parlamento inglese: “La Camera dei Comuni non ha nulla da dire e lo dice”.
Spesso ci capita di recarci alla redazione locale de “La Stampa”, ricavandone la mesta sensazione che accompagna le visite di condoglianze.
Ora l’umor nero è accresciuto dalle voci che rimbalzano da Torino.
Si parla di uno smembramento del gruppo, con “La Stampa” ed “Il Secolo XIX” destinati a convivere – naturalmente accorpati – sotto lo stesso tetto.
Quanto a “La Repubblica”, si sarebbe fatto avanti il Sovrano del Qatar.
“Si vera sunt exposita”, come dicevano gli antichi giuristi, questa voce ricorda un precedente storico poco incoraggiante.
Ci auguriamo dunque che alle dicerie oggi circolanti si possa applicare il motto popolare “Tempo di guerra, più balle che terra”.
Che i tempi attuali siano in realtà di guerra, non è necessario essere il Papa per accorgersene.
Veniamo comunque all’episodio la cui memoria è suscitata dagli attuali “rumors” in chi ha già i capelli bianchi: la FIAT venne rifinanziata dal Colonnello Gheddafi, e di lì a poco Arrigo Levi dovette lasciare la Direzione de “La Stampa”.
Gianni Agnelli giurò che il Colonnello libico non gli aveva chiesto la testa di questo ottimo e benemerito collaboratore, ma nulla mai poté dissipare il sospetto che Arrigo Levi fosse sgradito al nuovo azionista essendo un israelita.
La proprietà de “La Repubblica” ed il suo stesso Fondatore Eugenio Scalfari sono notoriamente legati da vincoli familiari con la Comunità Israelitica italiana, ed in particolare con l’alta borghesia precisamente di origine torinese.
A prescindere da tutto questo, sul giornale di via Cristoforo Colombo le idee elaborate nel “milieu” ebraico internazionale trovano il giusto risalto che ad esse compete, e tale rapporto ha indubbiamente contribuito a sprovincializzare il nostro Paese, rendendolo aperto agli influssi culturali dell’Europa Occidentale e di oltre Atlantico.
Potrà continuare questo legame, che per noi – anche sul piano personale – risulta vitale?
Se il precedente ricordato vale, temiamo che così non sia.
Si può anzi paventare che le cose vadano ancora peggio.
Entrato Gheddafi alla FIAT, la linea editoriale de “La Stampa” - sia pure privata del suo Direttore – non cambiò.
L’ambiente culturale di Torino ed il “mainstream” intellettuale subalpino erano in grado a quei tempi di resistere alla rozzezza del beduino della Sirte.
Roma è invece una città ed un ambiente mediterraneo, vorremmo dire levantino.
Per giunta, gli uomini della Penisola Arabica – a differenza dei Magrebini – coniugano con indubbia sagacia una concezione chiusa ed integralista dell’Islam con un’ottima conoscenza della nostra cultura occidentale, nel cui ambito sanno farsi valere,coniugando la potenza del denaro con una indubbia preparazione, non soltanto nel “business”.
Immaginiamo i futuri colloqui tra i nuovi proprietari e chi esercita la direzione operativa del gruppo editoriale: vale il precedente dell’incontro tra il Conte Zio ed il Padre Provinciale, “Troncare, sopire...”
E’ in atto uno scontro, che ci vede impegnati personalmente su tutt’altro fronte, quello delle lotte furibonde tra i tradizionalisti ed i Cattolici liberali nell’ambito della Chiesa.
Tuttavia, la contesa è la stessa, e la posta in gioco consiste nella collocazione, potremmo anzi dire nella concezione stessa dell’Italia.
I giovani della nuova generazione sono scesi in campo con il movimento delle “Sardine”, ma potrebbe essere troppo tardi, mancando il soggetto politico in grado di realizzare in concreto le loro istanze.
Thursday, November 21, 2019