Nella storia d’Italia, le rivolte generazionali avvengono saltando in genere una o due generazioni.
Molti connazionali si entusiasmarono per la Rivoluzione francese, ancor più dopo che Napoleone – in occasione del Congresso di Lione del 1802 – propose ai nostri antenati un ideale da essi non ancora ancora concepito, ma che adottarono con entusiasmo: quello dell’Unità nazionale.
La conclusione di quel sogno fu tragica: ben centomila italiani – un numero enorme per quei tempi – seguirono l’Imperatore dei Francesi, che nel frattempo si era anche fatto incoronare loro Re con la Corona Ferrea dei Sovrani longobardi, nel disastro dell’impresa di Russia.
Ne ritornarono solo cinquecento: neanche la disfatta dell’ARMIR avrebbe eguagliato una simile strage.
Nel 1848, sulla duplice spinta delle altre Rivoluzioni europee e dell’entusiasmo per l’elezione di un Papa presunto liberale – il Cardinale Mastai di Senigallia - tutto il Paese insorse, da Milano a Venezia, da Firenze a Roma e a Napoli.
Fu quello l’unico momento in cui il movimento unitario ebbe spessore e partecipazione popolare.
Il seguito del cosiddetto “Risorgimento” non fu all’altezza del suo esordio, riducendosi ad una successione di complotti internazionali e di fortunate guerre dinastiche.
Andò così perduto quanto di buono aveva espresso il Quarantotto, e cioè il legame con l’anima municipale e civica proprio dell’Italia, e ne conseguì l’affermazione di una concezione centralistica dello Stato: vale a dire – in termini di ispirazione politica – il suo esatto contrario.
Per vedere una mobilitazione delle piazze fu necessario attendere che si affacciasse sullo scenario la generazione post unitaria, la quale si ricollegò – con il movimento interventista – all’altro filone progressista del “Risorgimento”: l’affermazione del principio della sovranità popolare, contrapposto all’idea legittimista, fondamento dei superstiti Imperi europei.
Dopo la Grande Guerra, quel movimento si sarebbe diviso tra i democratici e i nazionalisti: l’affermazione di questi ultimi avrebbe portato nel giro di un’altra generazione al successivo conflitto, al termine del quale si ebbe un rovesciamento della situazione.
Tuttavia, la Repubblica, disegnata in base al pensiero politico centralista di Mazzini, ripeté – semplicemente sostituendosi alla dinastia sabauda – il vizio centralista proprio dello Stato unitario.
Veniamo ora a quanto fu vissuto dalla nostra generazione, accusata ingiustamente a suo tempo di cadere in un ribellismo iconoclasta.
L’errore da noi compiuto fu viceversa quello esattamente contrario, consistendo proprio nel non uscire dagli schemi propri di quella precedente.
Anziché criticare il centralismo, si ritenne che la soluzione dei problemi del Paese – ed ingenuamente anche di quelli del mondo – potesse venire da una rivisitazione in termini radicali delle ideologie che avevano ispirato i nostri padri.
Proprio in questo errore radica l’altro, direttamente conseguente dal primo, consistente nell’esterofilia dei cosiddetti “Sessantottardi”, i quali vedevano incarnati i loro propositi nelle rivoluzioni esotiche.
Il compito dei dirigenti della Sinistra avrebbe dovuto consistere nello sceverare quanto vi era di utopico nelle rivendicazioni della nuova generazione, usando però la spinta che essa esprimeva per dare alla democrazia italiana quanto ancora le mancava, e le sarebbe purtroppo mancato anche in seguito, per tutta la durata della nostra generazione: la possibilità di una alternativa nel governo del Paese.
È vero che nel movimento ci furono delle manifestazioni illegali, che certamente meritavano di essere represse, ma il gruppo dirigente comunista lo liquidò tacciandolo indiscriminatamente di essere sovversivo e violento.
Se qualcuno lo divenne per davvero e fino in fondo, generando la tragedia del terrorismo, fu certamente per sua propria responsabilità etica e penale, ma soprattutto per una responsabilità politica di questi dirigenti.
I quali videro nel movimento un incidente sul percorso che li avrebbe portati ad aggiungersi ai Socialisti nella cooptazione nel sistema di governo dal Paese.
Cominciò allora un duplice processo, che vide l’ala radicale del movimento criminalizzarsi progressivamente, mentre viceversa quella governativa si corrompeva: fino al punto che lo scranno di Segretario, occupato in precedenza da Gramsci e da Togliatti, è stato conferito ad un infiltrato della Destra come il tristemente celebre “Rottamatore”.
Il quale – lungi dal rottamare la Reazione – mandò al macero quanto restava non soltanto dell’eredità rivoluzionari – a questo avevano già provveduto i suoi predecessori – ma anche di quella riformista e solidaristica.
Contemporaneamente, infatti, il movimento cooperativo, erede di una tradizione risalente ai Liberi Comuni, degradava da Prampolini a Consorte: uomo noto – analogamente a Renzi - più per le vicende giudiziarie che per quelle politiche.
A questo punto, era inutile attendersi che qualcosa di nuovo e di buono potesse venir fuori dal Partito Democratico.
Qua e là per l’Italia, ci sono ancora – questo è vero – dei Sindaci e dei Presidenti di Regione che non soltanto amministrano bene gli Enti Locali, ma si collegano anche in qualche modo alla realtà sociale e culturale delle comunità da loro guidate: si tratta però precisamente di coloro che Renzi non è riuscito ad epurare, e che hanno vinto non già grazie al Partito, bensì malgrado il Partito.
Quando meno ce lo aspettavamo, per uno di quei miracoli che solo la fantasia della storia sa compiere, è venuta fuori una nuova generazione impegnata in politica.
Fino all’anno scorso, il Partito Democratico si era ridotto ad aizzare e ad organizzare gli studenti asini che volevano marinare la scuola: una pratica ora denominata “occupazione”.
Gli ex Comunisti tentavano penosamente di resuscitare artificiosamente ciò che avevano distrutto.
Le “Sardine” non hanno niente a che vedere con questi “movimenti” nati nel laboratorio del Nazareno.
Il Partito, per fortuna, è troppo debole tanto per cavalcare il nuovo fenomeno quanto per fornire argomenti a chi intende reprimerlo.
Dall’altra parte, infatti, non c’è nessun Moro, ma soltanto chi – come Salvini – intende distruggere la Sinistra (o quanto ne rimane), e non cooptarla.
Le “Sardine” dichiarano dal canto loro che possono anche votare per la Sinistra, ma non intendono né entrare a farne parte, né allearsi con essa: fanno benissimo, perché l’inaridimento culturale e ideale del Partito di Zingaretti renderebbe impossibile perfino trovare un linguaggio comune.
Questo è indubbiamente un primo punto positivo.
Un altro aspetto degno di nota è costituito dal non riferirsi a modelli stranieri, segno che - malgrado tutto – nell’ambito dell’Europa Occidentale si è venuta elaborando una cultura politica propria.
In molte Città straniere, i residenti italiani hanno manifestato in solidarietà con la Madrepatria, perfino ad Helsinki: però non all’Avana, e ciò dice tutto.
Con questa caratteristica si collega strettamente il carattere policentrico del Movimento, che sta costituendo un proprio coordinamento – come è giusto che sia – ma senza conferirgli alcun potere gerarchico sulla periferia.
Carlo Cattaneo sarebbe felice nel constatare come per la prima volta dall’Unità d’Italia questa realtà si impone sul centro, e dunque sul centralismo.
Qualcosa di analogo era avvenuto all’inizio della Resistenza: l’Otto Settembre, i popolani di Roma ed i militari di presidio nell’Urbe erano accorsi spontaneamente a Porta San Paolo per tentare di fermare i nazisti, malgrado che nessuno lo avesse ordinato.
Contemporaneamente, piccoli gruppi di volontari salivano dalle città verso le montagne: Giorgio Bocca ha censito mille persone, la cui ispirazione corrispondeva regolarmente con la cultura politica prevalente nei luoghi di origine.
Qualcosa di simile sta succedendo anche oggi, sia pure “mutatis mutandis”.
A Bologna c’erano dei giovani di ascendenza comunista, a Roma c’era i cosiddetti “Papa Boys”.
Qui affiora un’altra analogia col Sessantotto, incubato nel laboratorio di idee e di fermenti culturali proprio della Chiesa del dopo Concilio.
Dal 1963, data in cui questa assise si era conclusa, al 1968 passa più o meno lo stesso tempo trascorso dall’avvento di Bergoglio ad oggi: circa un lustro, o poco più, cioè il tempo in cui una generazione compie la propria riflessione.
Non c’è più, per fortuna, nessun Marchese Rodano che dice all’orecchio del Marchese Berlinguer che il compito della Sinistra consiste nell’offrire al Papato il supporto per l’edificazione di uno Stato confessionale.
Esiste, viceversa, una situazione di scisma latente – e sempre più prossimo ad essere dichiarato – tra i fautori di Bergoglio ed i suoi detrattori.
Il movimento in atto approfondisce ed accelera questa divisione, in quanto il settore cattolico tradizionalista è ormai schierato apertamente con Salvini, mentre quello progressista dà il proprio contributo al movimento delle “Sardine”.
Le quali si schierano apertamente contro il “Capitano”.
Costui, essendo in affanno per i guai giudiziari, offre ora addirittura i propri voti per un Governo di Unità Nazionale.
“Timeo Danaos et dona ferentes”: se anche la sua proposta venisse accettata, Salvini non rinunzierà mai al suo vero punto di forza: che consiste – come abbiamo già molte volte denunziato – nel controllo territoriale acquisito dall’estrema Destra alla dissoluzione ideale ed organizzativa della Sinistra, indebolita dalla corruzione di tanti suoi dirigenti e comunque dal loro distacco dalla realtà sociale.
Sul piano organizzativo, le “Sardine” partono – come si è detto – precisamente dai territori, riscoprendo – in opposizione a Salvini – la radice tipicamente municipale dell’Italia.
Sul piano dell’azione politica, questi giovani partono dal metodo, più che dal merito.
Se già qualcuno li accusa maliziosamente di non sapere ciò che vogliono, di essere troppo generici nei programmi, non li esortiamo invece a perseverare in questa scelta.
Chiarito che sono antifascisti – e tanto basta per distinguersi dai “Pentastellati”, partiti viceversa dalla negazione della differenza tra Destra e Sinistra – i ragazzi delle “Sardine” affermano che la politica si deve fare nelle sedi istituzionali.
Da un movimento nato nelle piazze, ci si poteva attendere l’esatto contrario.
Essi hanno invece capito quanto Zingaretti e Soci non sono in grado di comprendere, e cioè che la degenerazione indotta da Salvini nella politica italiana consiste precisamente nella strumentalizzazione delle istituzioni: non solo e non tanto perché il “Capitano” le impiegava come strumenti per la sua perenne propaganda, né in quanto usava i voli di Stato per andare ai comizi, bensì per una ragione molto più profonda: non abbiamo semplicemente assistito alla confusione tra le competenze dei vari organi dello Stato, con Salvini che assommava in sé le funzioni dell’intero Governo, ma soprattutto è venuta meno la distinzione tra “Res Publica” e “Res Privata”, si è affermata una concezione patrimoniale dello Stato.
Ci volevano dei giovani per chiarire che si tratta di una “quaestio stantis vel cadentis Rei Publicae”.
Ora viene il difficile: è prevedibile che il Leghisti, con tutti i gruppuscoli dell’estrema Destra affiliati, usino la violenza per contendere al nuovo Movimento il controllo della piazza, cioè il controllo del territorio.
Essendo ormai svuotata l’espressione della rappresentanza politica, lo scontro si gioca soltanto in questa sede.
Esprimiamo dunque ai giovani tutta la nostra simpatia e tutta la nostra solidarietà, perché da questo confronto dipende il futuro del nostro Paese.
Abbiamo notato che sulle piazze si torna a cantare l’Inno Nazionale.
In apparenza, ciò sembrerebbe in conflitto con il carattere di un movimento che si oppone al centralismo.
Il cosiddetto “Inno degli Italiani” era stato però composto da Goffredo Mameli come canto rivoluzionario.
Proprio per questo, i Leghisti non volevano che fosse eseguito, né in sede pubblica, né in sede privata, e qualcuno, per tenere loro bordone, aveva accettato di farsi complice di questa censura.
Tuesday, December 17, 2019