Il suo atteggiamento ilare ricordava quello dei tifosi della squadra vincente, che al lunedì mattina – al momento del cappuccino col cornetto – si fanno beffe di quelli della compagine perdente.
Siamo al cospetto non tanto di un fanatico, quanto piuttosto di un cretino.
Il nostro atteggiamento critico non sarebbe risultato diverso se avessimo udito qualche nostro connazionale esultare per l’uccisione del Generale Soleimani: è d’altronde probabile che qualche sventurato lo abbia fatto.
Inutile ripetere che le guerre cominciano perché all’inizio ciascuno è sicuro di vincere, e dimentica tanto la possibilità di perdere quanto la grande verità insegnata dalla storia: tutti, alla fine, ne escono sconfitti.
Il deficiente che abbiamo visto entusiasmarsi rischia inoltre più degli altri, dal momento che vive “in partibus infidelium”.
Se questo succede appena dato fuoco alle polveri, possiamo immaginare che cosa ci aspetta.
La prima vittima del conflitto può essere – se non è già – il nostro sogno di vivere in una società multiculturale, in cui la presenza di chi è diverso - per lingua, cultura o religione - costituisce un motivo di reciproco arricchimento.
Prima della Grande Guerra, esistevano nel mondo molte città in cui i diversi insediamenti erano radicati da secoli, facendo parte della loro stessa identità.
Pensiamo a Vienna, a Praga, a Trieste, a Costantinopoli, ad Alessandria: tutti quanti centri urbani situati, non a caso, negli antichi Imperi.
Le vicende successive, con l’avvento dei nazionalismi, portarono dovunque alla “pulizia etnica”.
E con essa ad un impoverimento generale della cultura.
Kafka scriveva in tedesco a Praga, e Kafavis scriveva in greco ad Alessandria: l’uno non aveva mai vissuto in Germania, né l’altro in Grecia.
Ci fu anche fenomeno inverso, per cui a Trieste il moravo Ettore Schmilz, in arte Italo Svevo, componeva le sue opere in italiano, come scrivevano nella nostra lingua lo sloveno Stuparich ed il croato Slataper.
Se si fosse domandato a questi personaggi che cosa si sentivano, come consideravano sé stessi, avrebbero avuto difficoltà a definirsi appartenenti ad una sola identità, non necessariamente coincidente con l’idioma impiegato quale strumento espressivo: per capirlo, basta riflettere sui contenuti della loro opera.
Oggi la multiculturalità, cancellata brutalmente in tutti questi luoghi, rivive altrove, nelle grandi metropoli dell’Occidente: Londra ha un Sindaco di origine pakistana, musulmano praticante, e Parigi è guidata da una donna figlia di profughi repubblicani spagnoli.
Quanto a Nuova York, non ha quasi mai avuto un Sindaco anglosassone, e riflette sempre nella rappresentanza politica il proprio carattere multietnico.
L’unico Sindaco di Roma che dopo l’unità d’Italia la governò in base ad una idea propria ed originale della Città fu l’israelita Ernesto Nathan: il quale non a caso fu eletto negli anni di Giovanni Giolitti, quando pareva sul punto di compiersi il miracolo di una trasformazione in senso autenticamente liberale dello Stato sabaudo.
Nathan voleva fare di Roma una Capitale moderna, sul modello di quelle dell’Europa Centrale: la sua origine lo induceva a superare l’idea dell’Urbe come mero centro religioso, ma era altrettanto lontano dalla megalomania “imperiale” cui si sarebbe invece ispirato Mussolini.
Il Sindaco concepiva Roma come una Città laica, con una vocazione nazionale ma nel contempo democratica.
Il suo maggiore impegno – non a caso – venne dedicato all’Istruzione popolare.
In seguito, questa ambizione venne travolta prima dai conflitti civili tra irredentisti e neutralisti, e poi da quelli tra fascisti e antifascisti.
La maggioranza di cittadini che oggi elegge gli amministratori delle grandi metropoli risulta inevitabilmente composita, riflettendo non soltanto la provenienza diversa della popolazione, ma anche la sua volontà di convivenza.
Ci domandiamo se tutto questo patrimonio di civiltà – non esitiamo ad usare una parola molto impegnativa – potrà sopravvivere alla guerra che si annunzia.
Il conflitto è conseguenza delle pulsioni identitarie che da qualche decennio dominano il mondo, ma pare anche destinato ad aggravarle.
Può essere – e naturalmente non ci farebbe piacere – che ne risulti una ulteriore affermazione del “cuius regio ejus religio”, declinata questa volta non più in termini etnici, bensì precisamente confessionali.
Il nostro auspicio è che laddove la convivenza si è realizzata, essa permanga.
E’ però impossibile prevedere quale formula politica si potrà escogitare per ottenere questo risultato.
Le metropoli dell’Europa Occidentale dovranno probabilmente trasformarsi in altrettante “Città – Stato”.
Qualche settimana fa, giustamente preoccupato per gli effetti dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, il Sindaco Khan ha avanzato questa proposta per Londra.
Si tratta di un’idea che – naturalmente “mutatis mutandis” - presenta delle affinità con quella prospettata negli anni scorsi per Roma da Monsignor Georg Ganswein: non già in veste di Segretario del Papa, quale era all’epoca, bensì come studioso del Diritto: il prelato tedesco si faceva fautore di una sovranità condivisa sull’Urbe tra lo Stato italiano e la Santa Sede.
Occorre precisare che Ganswein non era mosso da nostalgie per lo Stato Pontificio, e che non prospettava un ritorno alla teocrazia ed al confessionalismo, quale neanche i Cattolici liberali avrebbero potuto accettare: non veniva infatti rivendicata nessuna revisione dei principi costituzionali.
L’idea – pur nel suo carattere di provocazione dialettica – presentava degli aspetti interessanti.
Se non altro, essa avrebbe il pregio di porre la Città al riparo dall’ispirazione xenofoba che anima la Destra, vogliosa di riprendere il controllo del Campidoglio con le consuete velleità revansciste.
Il Papa è oggi d’altronde l’unica voce autorevole che si leva per contrastare queste tendenze.
Bergoglio ha in comune con Pietro il fatto di essere un extracomunitario: quando il suo primo predecessore sbarcò nell’Urbe, era ancora molto lontano l’Editto di Caracalla, che avrebbe conferito la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero.
Se non esistesse lo Stato Città del Vaticano – altro paradosso storico – il Vescovo di Roma dovrebbe fare la coda all’Ufficio Stranieri per rinnovare il Permesso di Soggiorno.
Si tratta di una esperienza che abbiamo fatto anche noi nel Paese di adozione, dove l’equivalente si chiama “Direcciòn de Migraciòn y Extranjeria”: l’attesa iniziava prima dell’alba, e terminava nel pomeriggio inoltrato.
Consigliamo alle persone come Salvini di vivere questa esperienza.
Saturday, January 04, 2020