Se Trombadori non fosse stato a sua volta un ammiratore incondizionato del Segretario, avrebbe potuto – anzi dovuto, per onestà intellettuale – rilevare che Togliatti era caduto in una palese contraddizione: se infatti vi era un autore di cinema in dissenso dalla linea estetica che “Ercoli” aveva imposto al Partito, era proprio il “Conte Rosso”.
Il quale rappresentava tuttavia in campo artistico – insieme con Renato Guttuso - il “pendant” di quanto Togliatti compiva nell'azione politica.
Il Segretario rifuggiva notoriamente da ogni forma di plebeismo, perfino nel vestire: per non parlare dell'esibizione di una raffinata cultura classica, che peraltro indubbiamente possedeva.
È rimasto famoso l'aneddoto del colloquio con un militante di base che si era atteggiato in modo particolarmente becero con il Capo, il quale reagì dicendogli: “Compagno, dammi del lei!”
Come si spiega dunque certa indulgenza in ambito estetico verso un mediocre plebeismo elevata a canone estetico dell'Italia comunista, analogamente a quanto si faceva in Unione Sovietica e nei Paesi dell'Est con il “realismo socialista”?
Questo modello non venne importato in Italia in quanto troppo simile all'esibizione dei bicipiti compiuta dagli artisti plastici del fascismo: per cui il canone proprio del “Socialismo Reale” sarebbe apparso – agli occhi degli Italiani – come un ritorno al “Ventennio”.
Se dunque la creatività di Visconti conquistò anche Togliatti – il quale comunque si guardò bene dal rendere pubblici i propri elogi al regista – il prototipo di produzione cinematografica che il “Migliore” mostrò di prediligere fu “Pane, amore e fantasia”: opera nella quale si riflettevano – neanche idealizzati – i tratti tipici dell'eterna Italia minore.
Senza cadere, beninteso, in una esibizione smaccata dei caratteri del popolino, l'opera essendo anzi nell'insieme delicata e godibile.
Non si usciva, tuttavia, dall'immagine di una gente italica compiaciuta di sé stessa, non certo proiettata verso un superamento delle proprie qualità innate.
Per fare questo, ci volevano dei modelli aristocratici, messi in scena per l'appunto da Visconti, egli stesso nobile di antico casato, discendente addirittura dai Re longobardi: non già da quel “volgo disperso” che era ed è viceversa la plebe italiana, cui rivolgeva invece il proprio sguardo compassionevole un altro aristocratico milanese, il Conte Alessandro Manzoni.
L'Autore dei “Promessi Sposi” apparteneva non a caso al filone cattolico della nostra cultura, mentre Togliatti e Visconti condividevano l'adesione alla tradizione laica.
Il canone estetico imposto da Togliatti al suo Partito era quello “nazional popolare”.
Si tratta di una delle rare parole composte della nostra lingua: il tedesco ne usa invece in abbondanza, segno del fatto che la cultura germanica tende alla sistematicità, mentre la nostra è contraddistinta dall'intuizione.
I Tedeschi, non a caso, sono un popolo di filosofi, noi siamo un popolo di poeti.
Viene da domandarsi se quando si dice nazional popolare non si cada per caso in una contraddizione.
Non necessariamente, a patto però che la motivazione nazionale da inculcare nel popolo sia abbastanza forte da riscattare quanto è soltanto popolare.
Nel qual caso, si cade nel plebeismo: omonimo – non a caso - di populismo.
E quando prevale il populismo, prevale la Destra alla Salvini, con certe esibizioni di vigore fisico e sessuale in cui già eccelleva il Duce, ben prima che venisse al mondo il “Capitano”: il quale di Mussolini costituisce soltanto una brutta copia.
Si dal caso che Sanremo – che nelle intenzioni dei suoi ideatori “di Sinistra” (?) doveva rappresentare il trionfo del nazional popolare, una sorta di manifesto della opposizione canora a Salvini - abbia finito per essere soltanto popolare.
Di nazionale, nel senso di ispirato ai grandi ideali, non c'è assolutamente nulla.
Salvo scambiare per idealista quanto è solo penosamente patetico: pur di strappare qualche lacrima, vengono esibiti sul palco dell'Ariston, come se fossero delle attrazioni da baraccone, orfanelli, invalidi, disoccupati, donne violentate e malati terminali.
Aspettiamo soltanto che qualcuno percorra la platea del teatro con il piattino per l'elemosina.
Non poteva mancare, per completare il quadro, la tradizionale “piazzata” condita di pubblici insulti, tipica del più volgare costume italiano.
Anche il grande Goldoni, d’altronde si era ispirato alle “Baruffe Chiozzote”.
La scenata – o la sceneggiata, che costituisce la sua trasposizione sul palcoscenico - è culminata in una espulsione: come avviene nel calcio, non a caso eretto a rappresentazione sportiva dell'abito nazionale di litigare in pubblico.
I cosiddetti “reati da cortile” trovano anche un puntuale prolungamento in Pretura, che costituisce a sua volta l'ambientazione delle nostre farse più esilaranti.
Il Festival avrà dunque un probabile strascico giudiziario, dando ulteriore lavoro ai giornalisti.
Con questo, abbiamo toccato veramente il fondo.
Salvo giungere l'anno prossimo ad una rissa – o addirittura ad un accoltellamento - in diretta mondiale.
Se manca il movente delle corna, si può sempre trovare un pretesto nei motivi di parcheggio.
Qualora il Sindaco Biancheri intenda evitarlo, deve impartire per tempo le opportune istruzioni ai Vigili Urbani.
Saturday, February 08, 2020