Il tema dell'epidemia è ricorrente nella letteratura.
Il tema dell'epidemia è ricorrente nella letteratura.
Tra i molti autori che vi hanno attinto, traendone ispirazione, ricordiamo il classico Manzoni ed il moderno Camus.
Nell'opera dell'uno come dell'altro, la diffusione di una malattia mortale era elevata a metafora di un male sociale ancora più grave della peste, quella reale del 1630 e quella immaginaria dell'omonimo romanzo.
Il Manzoni si riferiva alla condizione dei sottomissione in cui erano ridotti gli Italiani, sudditi della Spagna nel 1630 ed assoggettati all'Austra nell'epoca in cui redigeva “I Promessi Sposi”.
Camus, a sua volta, aveva presente l'occupazione nazista della Francia.
Entrambe le situazioni erano estreme, ma è appunto alle situazioni estreme che si riferisce la creazione letteraria, a partire dalla tragedia greca, in quanto ciascuno può riconoscervi almeno in parte la propria particolare condizione.
L'epidemia – come la guerra – porta in luce quanto di meglio e quanto di peggio esiste nell'indole di  ciascuno, ma determina anche due fenomeni riferiti alla convivenza collettiva: da una parte l'egoismo sociale e dall'altra la tendenza a costituire nuove aggregazioni, basate sulla solidarietà. Che costituiscono, una volta trascorso il pericolo, la base su cui riprende la vita comunitaria.
Quando i superstiti escono dal lazzaretto di Milano, un frate cappuccino li esorta a ricomporre nuove famiglie: ci sono dei figli rimasti senza genitori, e ci sono dei genitori rimasti senza figli.
Le conclusioni alle quali giunge il Manzoni, ispirato dalla morale cristiana, sono le stesse cui perviene il laico ed agnostico Camus.
C'è un passo, in “La Peste”, in cui si ricorda come, durante una epidemia del Medio Evo, dei molti frati presenti in un convento di Marsiglia, dedicatisi ad assistere gli ammalati, alla fine ne sopravvisse soltanto uno.
“Bisognava essere quell'uno”: questa è la conclusione cui perviene l'Autore.
Questo significa che il superstite non soltanto sopravvive per recare la testimonianza di chi si è sacrificato, ma soprattutto per fare fruttificare il seme costituito dal suo esempio.
In un'altra pagina del libro, uno dei protagonisti si domanda quale debba essere l'atteggiamento - suggerito - nel caso di Camus – dalla morale naturale, davanti all'epidemia, e più in generale davanti al diffondersi del male: “Fatalismo - è la risposta - ma fatalismo ATTIVO”.
L'unica salvezza – tanto per l'individuo come per l'insieme della società – consta dunque nel prestare aiuto.
Questo aiuto costituisce a sua volta il fondamento di quanto rinascerà dopo la catastrofe, e cioè una società rinnovata dal desiderio di tornare alla vita proprio di chi ha scampato il pericolo.
Forse la rivoluzione, tante volte mancata quando la si cercava volontaristicamente con l'azione umana, sarà determinata dalla fatalità degli eventi storici.
Tra i quali l'epidemia era il più imprevedibile, eppure è avvenuto.
Per i credenti, si tratta di un disegno della Provvidenza, quale lo considerò il Manzoni: la peste è l'evento che tutto sconvolge, e che addirittura in apparenza tutto distrugge, affinché tutto giunga a buon fine.
Ciò premesso, l'humus da cui risorge quanto viene dopo la catastrofe è però necessariamente costituito da qualcosa di preesistente, che nel caso della Milano del Seicento constava nella ispirazione cristiana della società, impersonata nelle due grandi figure di Sacerdoti che appaio nell'opera del Manzoni: Padre Cristoforo ed il Cardinale Federigo Borromeo.
Oggi, il tessuto sociale è destinato a riaggregarsi intorno alle varie identità regionali.
Le Regioni, intese come Enti Pubblici Territoriali, rappresentavano – nel disegno dei nostri Costituenti – una tentativo molto maldestro, dal punto di vista giuridico, da far convivere Mazzini e Cattaneo, cioè di conciliare lo Stato unitario e lo Stato federale.
Era inevitabile che questo tentativo fallisse, affermandosi pienamente l'una o l'altra ispirazione.
Essendo le Regioni munite di un potere di imperio derivato, la cui estensione era rimessa unicamente alla discrezione dello Stato, una evoluzione in senso federale dell'Italia risultava completamente preclusa.
L'unica materia in cui le Regioni dispongono di una competenza rilevante è la Sanità: il che le costringe a riversarvi questi tutte le loro entrate.
Oggi, però, con l'epidemia, l'esercizio di questa competenza diviene essenziale, al punto che i rispettivi Assessori, un tempo considerati degli oscuri burocrati, sono balzati sul palcoscenico nazionale in veste di protagonisti.
Con il risultato che ne usciranno in veste di eroi, o in veste di falliti.
E' così che si formano le nuove classi dirigenti.
Se però le Regioni riusciranno a debellare la malattia, essendo divenute il punto di riferimento della vicenda civile, esse finiranno per contrapporsi al centralismo nel nome del prestigio che avranno conquistato sul campo.
Inevitabile risulterà dunque la rivendicazione di nuove competenze.
Questa tendenza al riemergere delle identità precedenti l'Unità nazionale si è manifestata periodicamente, come un fiume carsico, nella nostra storia moderna.
Durante la Grande Guerra, lo Stato sabaudo dovette fare ricorso al campanilismo intitolando le unità militari ai nomi dei luoghi di origine dei soldati.
La Resistenza rappresentò il culmine dello spirito localistico, con le brigate partigiane espressione di ogni città e di ogni valle, e con i Vescovi ridivenuti l'unica Autorità effettiva: i Conti – Vescovi, per l'appunto, come li definì lo storico cattolico Giorgio Rumi.
Questa volta, però, nessun Salvini potrà fermare la tendenza identitaria e centrifuga nel nome del centralismo.
La fantasia della storia è infinita.

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Mario Castellano 22/02/2020
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