Sarebbe più corretto dire che sono stati convocati i Presidenti delle Giunte Regionali, in quanto il termine “Governatore” non fa parte del lessico giuridico italiano, e risulta inutile ricercarlo nei vari Digesti.
L'adozione di questa definizione costituisce in realtà l'ennesima manifestazione della nostra esterofilia da poveri provinciali.
I “Governatori “erano infatti alla guida delle Colonie, quando ancora quei territori, con le rispettive popolazioni, erano sottoposti al dominio europeo: il termine dunque non richiama – come da noi erroneamente creduto – una condizione di indipendenza, bensì il suo esatto contrario.
La Spagna ed il Portogallo avevano nel Nuovo Mondo dei Viceré, al di sotto dei quali stavano i “Capitani Generali”.
La Corona Inglese nominava invece per l'appunto dei Governatori nelle sue Colonie americane.
Le quali assunsero con l'Indipendenza il nome di Stati, ma non cambiarono quello dell'organo li presiede e – come avviene anche nel caso dell'Unione – ne guida il Potere Esecutivo.
Le nostre Regioni, per fare finta di essere indipendenti, si sono proclamate ancora più sottomesse al potere centrale di quanto fossero in origine.
Questo apologo riguardante il vocabolario giuridico, rappresenta bene quanto accaduto nei giorni scorsi: abbiamo già descritto, in un articolo precedente, come il Governo Conte abbia privato “de facto” ed in un colpo solo le Regioni a Statuto Ordinario dell'unica competenza fino ad ora ad esse affidata, cioè quella sulla Sanità.
Risulta dunque patetica la rivendicazione di una estensione ad altre materie, avanzata da Veneti e Lombardi sulla spinta di altrettanti referendum popolari consultivi.
Oggi Zaia e Fontana si vedono rinfacciare come un inutile spreco le spese sostenute per celebrarli, ma già a suo tempo avemmo modo di commentare come i negoziati aperti con il Governo, quando ancora il suo Vicepresidente era l'ex secessionista Salvini, fossero finiti con una presa in giro.
Nel Diciassettesimo Secolo, la Repubblica di Genova, formalmente ancora indipendente, si trovava in realtà in una condizione di vassallaggio rispetto alla Francia.
Quando il Doge Francesco Maria Imperiale Lercari venne chiamato a rapporto dal Re nel palazzo di Versailles, essendogli stato domandato che cosa lo avesse più impressionato di quella splendida reggia, rispose con una frase passata alla storia tanto per l'icasticità della nostra lingua regionale quanto per il significato espresso: “Mi chi”.
Il che, tradotto in italiano, significa: “Che un poveretto come me si trovi in un posto simile”.
I delegati delle Regioni settentrionali, calati baldanzosamente su Roma per chiedere maggiore autonomia, una volta giunti a Palazzo Chigi si ritrovarono più o meno nella stessa situazione.
I Liguri, sospinti da una mozione approvata all'unanimità dal Consiglio di via Fieschi, ritornarono a Genova con le pive nel sacco: ci toccò all'epoca l'ingrato compito di commentare quella disastrosa spedizione, che si risolse soltanto in un arricchimento per gli albergatori ed i ristoratori dell'Urbe.
Né poteva finire diversamente, dato il carattere velleitario e confuso delle loro rivendicazioni.
“Roma ladrona” - come la chiama l'ineffabile Sonia Viale – trattava alla stregua di mendicanti i suoi sudditi provenienti da una lontana periferia dello Stato.
Sulla cui precisa ubicazione i Quiriti hanno d'altronde idee piuttosto approssimative.
A noi capitò di confrontarci con il Responsabile “del territorio” (!?) del Partito Democratico, che gentilmente ci ricevette nel suo lussuoso ufficio del Nazareno.
Questo personaggio apprese da noi dell'esistenza di una Città e di una provincia chiamate Imperia, nonché del fatto che essa è ubicata nell'estremo Ponente della Liguria, sul confine con la Francia.
Partendo da tale presupposto, sarebbe risultato poco opportuno infierire sul malcapitato chiedendogli notizie su come veniva considerata la dirigenza locale.
Fu addirittura lui a chiederci lumi al riguardo.
Al tempo del Fascio, quanto meno, i “Federali” dovevano rendere conto puntualmente ai gerarchi romani del Partito Nazionale Fascista.
Esistevano inoltre l'Opera Balilla, la Gioventù Italiana del Littorio, le Massaie Rurali, gli ex Combattenti ed una pletora di altre organizzazioni di massa, tutte rigidamente centralizzaste ma per lo meno edotte di quanto succedeva lontano dall'Urbe.
Torniamo però alla storica riunione tra Conte ed i “Governatori”.
Quando si decise di sciogliere l'Unione Sovietica, la risoluzione venne adottata in un vertice tra i Presidenti delle tre cosiddette “Repubbliche Slave”, cioè la Russia, l'Ucraina e la Bielorussia.
Gli altri, naturalmente, si adeguarono di buon grado.
Analogamente, i sei Presidenti delle Repubbliche Jugoslave decisero il divorzio – che poi sarebbe risultato molto burrascoso – essendo seduti allo stesso tavolo.
Conte ed i nostri Diadochi si sono visti invece in teleconferenza: non sappiamo se per timore del contagio o in quanto un viaggio fino a Roma viene ormai considerato alla stregua di uno spreco di tempo e di denaro.
Emiliano, focoso pugliese, e Fontana, altezzoso varesotto che ben volentieri si sarebbe presentato di persona qualora lo avesse invitato il Presidente della Confederazione Elvetica, non sono venuti alle mani semplicemente perché la pur avanzata tecnologia della Presidenza del Consiglio non lo consente: tra i due sono comunque volate parole grosse.
Nella postremità dell'Impero Asburgico, mentre le sue armate erano già in rotta su tutti i fronti, tra gli austro-tedeschi e le minoranze vennero scambiate parole amare.
Dopo pochi giorni, si consumò la frantumazione.
Da noi questo esito è ancora remoto, per cui quanto avvenne a Vienna nel 1918 può essere considerato l'evento, mentre la lite scoppiata a Roma nel 2020 è ancora soltanto il fatto.
Il fatto, però, costituisce un accadimento irreversibile, che sempre contiene “in nuce” quanto sta maturando.
Quando si costituì l'attuale Governo, scrivemmo che si trattava del promo Gabinetto a trazione meridionale nella nostra storia unitaria: non perché fossero mancati in precedenza i Presidenti del Consiglio ed i Ministri provenienti dal Sud, quanto perché risulta guidato da una filosofia dichiaratamente meridionalista.
Salvini era un tempo separatista: siamo abbastanza vecchi per ricordare come l'allora giovane Consigliere Comunale di Milano rifiutasse di stringere la mano al Presidente Ciampi, dicendogli che lo considerava il capo di una potenza straniera, dedita ad opprimere la “Padania”.
L'uomo è anche noto per avere intonato un inno che dice “Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i Napoletani”.
L'orientamento politico si è rovesciato, ma permane la maleducazione – come pure la tendenza all'etilismo.
In realtà come la conversione di Mussolini dall'anticapitalismo, dall'anticlericalismo e dalla fede repubblica al loro esatto contrario venne propiziata dal denaro degli agrari – anche allora “padani”- anche la via di Damasco su cui è stato folgorato Salvini, trasformandolo in fautore del centralismo, ha origini economiche ben precise.
La conquista da parte della Lega di varie Regioni – ieri la Liguria, oggi l'Umbria – ha comportato l'occupazione della Sanità da parte dei famosi “manager” lombardi, o almeno di quelli che non sono finiti in prigione con Formigoni.
Arriviamo dunque ad una conclusione: nella storica teleconferenza di Palazzo Chigi non si sono confrontati il centralismo ed il regionalismo, bensì due centralismi, quello romano e quello milanese.
Logico dunque che un meridionale lucido ed onesto come Emiliano abbia scelto chiaramente di stare con Roma: se si deve sottostare ad un padrone, si spera di poter scegliere il meno peggiore.
Nel Sud è ancora viva la memoria tanto dei Prefetti inviati dai Savoia quanto dei “Federali” nominati dal fascismo, entrambi percepiti come estranei ed ostili dalle popolazioni meridionali.
A costo di essere tacciati di clericalismo, ricordiamo come il Papa proveniente dal Sud del mondo abbia ammonito fin dall'inizio del suo Pontificato il nostro Meridione circa la sua condizione di sottomissione coloniale.
Nel 1946, Pietro Nenni affermava che era il “Vento del Nord”, sollevato dalla Resistenza, a spingere verso la vittoria della Repubblica.
Oggi – in tempi di conflitto tra il Settentrione ed il Meridione del mondo – assistiamo al fenomeno inverso.
Il discorso ritorna comunque a riguardare la Chiesa.
Qualche anno fa, fece discutere - non soltanto tra laici e cattolici, ma anche nello stesso ambito ecclesiale – la canonizzazione di Pio IX.
Non è questa la sede per rievocare le vicende che segnarono l'evoluzione del suo Pontificato, dall'iniziale simpatia verso la causa nazionale italiana fino all'insanabile conflitto con lo Stato unitario.
Il punto è un altro: come si concilia, nell'ambito stesso del Cattolicesimo, da una parte la formale vigenza del Sillabo e dall'altra l'adesione alla causa dei popoli che aspirano all'emancipazione, anche quando la sua espressione politica coincide precisamente con le ideologie a suo tempo condannate da Mastai Ferretti?
Siamo in apparenza dinnanzi ad una contraddizione insolubile.
Tanto più che risulta improbabile una rivendicazione indipendentista meridionale – i cui sintomi abbiamo da tempo rilevato e analizzato, anche quando altri li ritenevano trascurabili – nella forma politica della Restaurazione, tanto del Regno delle Due Sicilie come dello Stato Pontificio.
La riabilitazione di Pio IX - malgrado sia impossibile occultare la persecuzione, anche sanguinosa, dei fautori dell'Unità nazionale – si può spiegare con una lettura del cosiddetto “Risorgimento” in chiave di conquista coloniale.
Alla quale si opposero tanto Mastai Ferretti, con i suoi soldati e volontari papalini, quanto Francesco II di Borbone.
C'è un bel quadro di Purificato, intitolato “La morte di Pulcinella all'assedio di Gaeta” che rievoca il dramma – anzi la tragedia – vissuta dal Meridione in quel frangente storico: Pulcinella rappresenta il simbolo di una cultura divenuta subalterna.
Sulla base di questa cultura si rilegge oggi non soltanto la storia, ma anche l'attualità, dando luogo ad una riconsiderazione di cui sappiamo come comincia, ma non sappiamo dove ci può condurre.
Al punto che qualcuno – lo fa anche il tradizionalista Vittorio Messori, in odio tanto del liberalismo come del cattolicesimo liberale – riabilita anche la mafia come forma di resistenza ai soprusi della conquista “piemontese”.
Seve a poco ricordare che “Cosa Nostra” è arrivata a sciogliere un bambino nell'acido.
Non serve nemmeno, d'altronde, ricordare che lo Stato Pontificio mise a morte Monti e Tognetti.
Una volta accettata in via di principio la revisione storica, non se ne possono rifiutare “a priori” le conseguenze.
In conclusione possiamo constatare il Sud del Mondo - e con esso il Meridione d'Italia – scende in campo nell'attuale conflitto con l'intero armamentario della sua eredità politica, culturale e religiosa: in cui c'è posto per Don Puglisi come per il Cardinale Ruffo di Calabria, per i laici quali Luigi Settembrini come per il “Re Bomba” Ferdinando II di Borbone.
Quanto al Settentrione, non è certo colpa dei Meridionali se c'è chi rinnega Rosmini, Gioberti e Manzoni per adottare i Rosari e le Madonne di Matteo Salvini.
Wednesday, February 26, 2020