L’alternativa davanti alla quale è posta l’Italia non poteva essere espressa con maggiore chiarezza e concisione di quanto ha detto ieri a “La Repubblica” Enrico Rossi, Presidente della Giunta Regionale della Toscana:
L’alternativa davanti alla quale è posta l’Italia non poteva essere espressa con maggiore chiarezza e concisione di quanto ha detto ieri a “La Repubblica” Enrico Rossi, Presidente della Giunta Regionale della Toscana: “Ho apprezzato molto l’intenzione del Governo di coordinare le Regioni. Senza scavalcare le prerogative di nessuno, di fronte all’emergenza del coronavirus è stato messo in campo il tentativo di mostrare che può ancora esistere un sistema Paese coeso e responsabile”.
Abbiamo già scritto di come la riunione celebrata nei giorni scorsi in videoconferenza tra i rappresentanti del Governo nazionale e quelli delle Regioni abbia costituito il momento in cui si sono scontrate due concezioni opposte ed inconciliabili dell’Italia.
Per capirlo, occorre risalire ad altri momenti della vicenda collettiva, alle prove affrontate dalle due precedenti generazioni.
Nel 1917, dopo la rotta di Caporetto, non era in gioco soltanto la sopravvivenza dello Stato unitario, bensì un principio possibilmente ancora più importante: quello dell’autodeterminazione dei popoli e della sovranità fondata sul loro consenso.
La coscienza di quanto era in gioco, diffusa tra i combattenti come tra la gente, motivò la resistenza sul Piave, propiziando un esito della guerra che aprì la strada al processo ancora in corso di emancipazione delle Nazioni.
Ciò venne però reso possibile dall’avere accantonato le divisioni politiche contingenti, anche quelle riguardanti la forma istituzionale ed i rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
La stessa situazione si ripeté quando l’Italia – dopo l’Otto Settembre – si ritrovò occupata dai nazisti.
Ne prese atto Togliatti nel concepire la sua famosa “
Svolta di Salerno”: occorreva accantonare ogni discrepanza per raggiungere l’obiettivo della Liberazione.
Oggi Rossi, rendendosi portavoce della posizione espressa tanto da Roma come dai diversi capoluoghi regionali in cui i democratici sono al governo, propugna ed espone una scelta in linea con questi precedenti storici.
Di fronte all’arroganza di Fontana, che ipocritamente innalza la bandiera dell’autonomismo essendo allineato con chi, come Salvini, si propone espressamente di sopprimerlo – null’altro, infatti, significa la sua richiesta di “pieni poteri” - Rossi afferma che bisogna “coordinare le Regioni”, cioè cementare l’unità nazionale contro un comune pericolo; aggiunge però che non si devono “scavalcare le prerogative di nessuno”.
Il che significa che non si intende ledere il principio delle autonomie locali, senza le quali la democrazia verrebbe abolita.
Quanto occorre è limitarsi nel loro esercizio per difendere l’interesse comune.
Nella famosa riunione in teleconferenza, si è stipulata una alleanza, e non si è certo firmata una resa.
Ci saremmo invece arresi qualora ci si fosse piegati alle pretese di Fontana, che in quella circostanza fungeva da megafono di Salvini, mentre invece Zaia – e fa bene Rossi a dargliene atto – gli ha rifiutato la propria adesione.
Il Presidente del Veneto è rimasto infatti malgrado tutto un autonomista, mentre il suo collega della Lombardia è fautore di un progetto di centralismo apparentemente contrapposto a Roma, ma in realtà subordinato al disegno autoritario del “Capitano”.
La Lega ritorna dunque al separatismo.
Sarebbe fin troppo facile rilevare come tra questa posizione e la successiva scelta autoritaria e nazionalistica esista un elemento comune, costituito dal razzismo: dapprima proclamato nei confronti di altri italiani, poi proiettato sugli stranieri e che ora ritorna a riguardare i connazionali di altre Regioni.
Non è questa, però, la discriminante su cui verte lo scontro tra i democratici e Salvini.
Né - a ben vedere – la scelta riguarda l’estensione delle autonomie locali, e neanche la possibilità di una loro evoluzione verso l’autodeterminazione.
Quanto è in discussione è la stessa concezione democratica della “Res Publica”.
Nel nome di una emergenza, davanti alla necessità di combattere un nemico od un pericolo comune, si possono – anzi si debbono – limitare quelle che Rossi definisce le “prerogative” degli Enti Pubblici Territoriali.
Purché, naturalmente, la loro funzione non venga messa in discussione in linea di principio.
Ed è appunto la salvaguardi di questa funzione, essenziale per la stessa sopravvivenza della democrazia, quanto ci divide dai fautori di soluzioni autoritarie come è appunto Salvini.
Non si dimentichi quanto Costituzione afferma a proposito delle autonomie locali, che cioè la Repubblica le “riconosce e promuove”.
Le “riconosce” in quanto preesistenti allo stesso Stato unitario, risalendo – se non vogliamo ricordare i “Municipia” dell’Italia romana – quanto meno ai Liberi Comuni, quali sorsero proprio a cavallo dell’Appennino, dal disfacimento del feudo canossiano, spartito tra Bologna e Firenze: le Città in cui oggi non a caso siedono Bonaccini e Rossi, campioni entrambi della resistenza contro Salvini.
La Repubblica “promuove” le autonomie locali in quanto espressione essenziale della democrazia.
Il separatismo di Fontana, viceversa, non le “riconosce”, né tanto meno le “promuove”.
Basti pensare alla colonizzazione dell’Italia da parte della cleptocrazia sanitaria lombarda, che per fortuna è stata fermata sull’antico confine tra lo Stato di Milano ed il Ducato di Parma e Piacenza.
Tanto meno questa invasione riuscirà a valicare l’Appennino.
Rossi dice di avere ricevuto centinaia di minacce di morte.
Questo, molto più modestamente, sta succedendo anche a noi.
Siamo naturalmente solidali con il nostro amico e compagno della Toscana, ma non ci dobbiamo meravigliare, dal momento che ci troviamo impegnati in una guerra.
Non soltanto per la salute, ma più ancora per la libertà e per la democrazia.

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Mario Castellano 27/02/2020
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