Oggi, l’Italia si è risvegliata in guerra, come era già accaduto nel 1915 e nel 1940.
Poco importa stabilire se l’epidemia sia stata scatenata per combattere questo conflitto, dando il primo colpo ad un nemico contro cui era prima o poi inevitabile iniziare le ostilità.
Quanto conta è che la guerra già si sta combattendo, ed il fatto che almeno per ora non si spari aumenta – anziché diminuire – la paura della gente, in quanto non è possibile identificare il nemico.
Di conseguenza, è anche caduta la distinzione tra le misure adottate per combatterlo e quelle che viceversa sono dirette a proteggere la popolazione ed i propri soldati.
Durante la Prima Guerra Mondiale, vigeva ancora la distinzione tra i militari ed i civili.
Nel corso della Seconda, questa differenza venne a cadere: la Resistenza venne infatti intrapresa da tutta la popolazione, contro la quale si abbattevano indiscriminatamente le rappresaglie.
Ora siamo arrivati al paradosso per cui combatte – e viene di conseguenza colpito – soprattutto chi non porta l’uniforme.
C’è però un elemento in comune con i due conflitti precedenti, quello dei nonni e quello dei padri: la guerra sarà decisa la tenuta del fronte interno.
A ben vedere, l’esito dei conflitti moderni – essendo espressione della civiltà industriale – dipende dalla produzione.
Quando non fu più possibile dare da mangiare agli operai – più che ai combattenti – i diversi contendenti dovettero arrendersi: ciò avvenne prima per la Russia, e poi per l’Austria e per la Germania.
L’altro fattore decisivo è costituito dall’identificazione collettiva in una causa comune.
La quale chiama però in causa le identità dei contendenti.
I nostri nonni giunsero all’appuntamento con il 1915 e con l’Intervento – i cui fautori risultarono egemoni, benché minoritari, sui neutralisti – avendo assimilato una istruzione elementare (ben pochi, a quel tempo, andavano oltre nel loro “cursus studiorum”) - fatta di esaltazione nazionalistica.
L’altra parte non era da meno: i bambini di Trieste cantavano (in italiano) il “Dio conservi, Dio protegga”, riferito all’Imperatore.
Questo inni veniva però intonato in sette lingue diverse: e fu precisamente questa differenza a condannare la “Duplice Monarchia”.
Ai primi di novembre del 1918, quelli che Karl Kraus avrebbe descritto come “Gli Ultimi Giorni dell’Umanità”, la fiumana scomposta dei combattenti si dirigeva, sentendosi ormai definitivamente gli uni estranei agli altri, verso il rispettivo Paese di provenienza.
Per chi sa cogliere i segni dei tempi, questo fenomeno si è manifestato da noi non già alla fine, bensì all’inizio della guerra.
I Meridionali residenti nelle grandi Città del Settentrione hanno infatti preso il treno o l’automobile, dirigendosi precipitosamente verso i loro luoghi di origine.
Che cosa ha influito su questa scelta, tanto improvvisa da risultare in fondo istintiva?
In molti casi, il timore di essere tagliati fuori; in molti altri, certamente, la paura del contagio; in altri ancora, però, ha prevalso il richiamo identitario, come se i fuggiaschi avessero percepito dietro di sè il “ponte rotto” di ogni inizio di una guerra.
Si può dunque capire che saranno ancora una volta le identità percepite come proprie dai contendenti a decidere le sorti di questa nuova guerra.
Nel 1916, i Tedeschi aizzarono la “Rivolta di Pasqua” di Dublino contro i Britannici, e sbarcarono da un sommergibile sulle coste dell’Irlanda l’indipendentista Lord Casement, che però venne subito catturato ed impiccato per alto tradimento.
Risultò ben più efficace la propaganda dell’Intesa, diretta a smembrare l’esercito austriaco.
Il 24 maggio del 1918, l’Italia – anticipando i Trattati di Pace – riconosceva la Cecoslovacchia, e una Divisione formata dai suoi disertori prese parte alla Battaglia di Vittorio Veneto.
Cesare Battisti, Fabio Filzi, Nazario Sauro, Gianni Stuparich ed altri entrarono nel Panteon degli Eroi Nazionali per avere aderito alla causa dell’Irredentismo, ma la loro scelta risultò estremamente minoritaria, a Trento come a Trieste.
L’identità italiana si impose essenzialmente perché allora la nostra Nazione era un organismo più giovane dell’Austria.
Oggi, però,  viviamo l’ora delle discipline collettive, e quanto avviene – anche l’esodo verso il Meridione – certamente non le infrange.
E’ tuttavia impossibile fare a meno di scorgere in questo fenomeno una manifestazione di resilienza, espressa dall’attaccamento alle proprie radici.
La possibilità che la resilienza diverrà resistenza dipende da che cosa avverrà nel futuro.
Quanto ai Cattolici, se da un lato manifestano la propria lealtà verso lo Stato (le eccezioni rappresentate dal settore tradizionalista più estremo nono sono né rilevanti, né rappresentative) – essi mantengono anche in questo frangente storico la propria identità.
Questo era già avvenuto nel corso della Prima Guerra Mondiale, ma soprattutto durante la Seconda: nell’un caso la Chiesa gestì la Sanità Militare, mobilitando i Cappellani e le Suore; nell’altro ci furono i Partigiani “bianchi” di Enrico Mattei, ma soprattutto risultò decisivo l’apporto offerto alla Resistenza dalle rete delle Parrocchie.
Oggi c’è la struttura di assistenza della Caritas, predisposta con lungimiranza, in tempi ormai remoti da Monsignor Di Liegro, da Monsignor Riva e da Monsignor Castellano.
Al punto che una organizzazione caritativa può risultare decisiva per le sorti di una guerra.
Più in là non si può andare, essendo il futuro nelle mani di Dio.
E’ tuttavia un fatto che noi Liguri, come pure i Piemontesi, assomigliamo ai Francesi; i Trentini sono simili ai Tedeschi, i Lombardi ai Ticinesi, i Siciliani agli Arabi, i Napoletani agli Spagnoli ed i Pugliesi ai Greci.
Si tratta di eccentricità rispetto alla nazionalità comune che possono venir fuori alla distanza, affiorando in una guerra che sarà certamente di usura.
Una nota a parte merita l’ambiente sportivo.
Il Governo ha interrotto il Campionati e chiuso le stazioni sciistiche: che Dio lo rimeriti!
In realtà, l’onnipotente Federazione Italiana Giuoco Calcio avrebbe potuto appuntarsi una medaglia precedendo le determinazioni dell’Esecutivo.
Certi suoi Dirigenti, guidati dal laziale Lotito, hanno invece recalcitrato fino all’ultimo, minacciando di sollevare un conflitto di competenze, basato sull’asserita natura di Ente Pubblico della stessa Federazione.
Peccato che solo pochi giorni fa l’Ufficio Legale del Foro Italico, forte di ben diciassette agguerritissimi Avvocati (chissà che cosa fanno dal mattino alla sera), abbia gridato ai quattro venti che le Federazioni – e lo stesso Comitato Olimpico Nazionale - sono soggetti di Diritto Privato.
Nel nostro Pese di adozione, questa schizofrenia viene definita proverbialmente “cambiarsi il berretto”.
Quando si tratta di assumere un dipendente per chiamata diretta, come è avvenuto ad Imperia con Franco Brioglio, conviene essere soggetti di Diritto Privato, eludendo la Costituzione che prescrive per gli Enti Pubblici la procedura del concorso.
Quando invece si tratta di contrastare il Governo, si scopre invece di essere un Ente Pubblico, e si minaccia di ricorrere alla Consulta.
Molti Stadi italiani sono dedicati ad atleti caduti nella Grande Guerra: anche il nostro campetto di calcio porta il nome di Nino Ciccione, che era il portiere del Genoa.
Non pretendiamo che l’ex Segretario del CONI di Imperia si arruoli volontario, i tempi sono cambiati; tuttavia, lo spettacolo offerto da chi fa “il pesce in barile” nelle retrovie non risulta di sicuro molto edificante.
Per quanto riguarda il padrone di un impianto sciistico dell’Abetone, il quale – novello “pescecane” - invita i giovani a trascorrervi il loro tempo potendo marinare la scuola.
Probabilmente, questo Signore appartiene alla eletta schiera di suoi colleghi che mascherano la propria struttura come “Società Sportiva” al fine di eludere il Fisco.
La Federazione Italiana Sport Invernali non ha nulla dia ridire?
Il Papa suole dare ai fedeli dei “compiti a casa”, e anche noi ne assegniamo uno ai nostri affezionati lettori di Imperia: chi è – o chi era fino a poco tempo fa – il suo Presidente Provinciale?

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Mario Castellano 12/03/2020
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