La prima nazione che conquistò l’indipendenza nel corso del XX secolo non fu un paese esotico, bensì collocato nella zona forse più tranquilla, ordinata e pacifica del mondo, cioè la Scandinavia.
Se pochi conoscono questo dato storico, ancora meno risultano quanti sono in grado di dispiegare come vi si giunse.
La terra dei fiordi, dopo aver appartenuto al Regno di Danimarca, era stata assegnata per decisione del Congresso di Vienna alla Svezia quale compensazione per la perdita della Finlandia, ceduta a sua volta alla Russia.
I norvegesi, gente più che mai quieta e poco propensa alle rivoluzioni, si adattarono senza problemi alla loro nuova sudditanza.
Durante il XIX secolo, nel solco di una vocazione marinara risalente ai Vichinghi, pensarono di sfruttare la risorsa rappresentata dallo sviluppo costiero del loro paese per costituire una grande flotta mercantile e, seconda soltanto a quella della Gran Bretagna, che all’epoca era la massima potenza mondiale.
In quel tempo, all’approdo di ogni nave mercantile in uno scalo straniero, il Console dello stato cui apparteneva l’imbarcazione doveva salire a bordo per svolgere – insieme con le autorità portuali – le procedure doganali.
La Svezia che era viceversa una potenza con vocazione continentale, non aveva interesse a sviluppare un servizio consolare e non rientrava nei suoi vantaggi.
Le autorità di Oslo si posero dunque il problema di costituirne uno proprio.
L’accreditamento di agenti diplomatici – quali sono i consoli – costituisce però una prerogativa esclusiva degli stati indipendenti.
La Norvegia si venne dunque a trovare nella necessità di compiere un atto rivoluzionario per realizzare il proprio interesse economico, e decise quindi di proclamare l’indipendenza .
La Svezia preferì a sua volta accettare il fatto compiuto pur di non assumere delle spese che non le risultavano convenienti.
Fu così che nel 1905 la Norvegia divenne uno stato sovrano.
In questo caso, si riaffermò il principio per cui la funzione crea l’organo, ed anzi crea addirittura il soggetto.
Quando – in seguito alla Seconda Guerra Mondiale – vennero liquidati nel giro di pochi anni gli imperi coloniali europei, i nuovi stati si trovarono in molti casi privi del personale necessario per costituire le loro amministrazioni pubbliche, ed in particolare i rispettivi servizi diplomatici.
Ci sia consentito un ricordo personale: insegnando il diritto pubblico nel paese di adozione, ci venne spontaneo formulare questo paradosso: se per miracolo fosse entrato in vigore un sistema organico di norme amministrative, ciò ne avrebbe aggravato i problemi, dato la mancanza del personale necessario per applicarlo.
La “civile” Lombardia ha dimostrato nei giorni scorsi di assomigliare più ai paesi africani che alla Norvegia.
Questa nostra affermazione può suonare offensiva alle orecchie dei nostri connazionali di Milano e dintorni, ma ci sia permesso di argomentarla sulla base di quanto è avvenuto.
Come abbiamo avuto occasione di scrivere, l’amministrazione regionale ha chiesto al Ministero competente che venisse autorizzato l’impiego di una nuova medicina antivirale prodotta in Giappone.
Roma ha risposto che l’agenzia del farmaco doveva previamente procedere alla sperimentazione.
Milano ha controreplicato rifacendosi agli accertamenti compiuti nel paese del “sol levante”.
Se ci fosse stata una farmacia del farmaco regionale, il problema sarebbe stato risolto “in loco” senza correre il rischio che il farmaco risultasse inefficace, o peggio dannoso per i pazienti.
È molto probabile che la Lombardia, superata l’emergenza, si doti di questo particolare servizio.
Il problema non sarà tuttavia risolto dal punto di vista giuridico, dato che la competenza per autorizzare l’uso delle medicine spetta – in base alle norme vigenti – al Governo nazionale.
A questo punto però, la regione emanerà una sua legge con cui tale competenza verrà trasferita alla Lombardia. Proseguendo in questo esercizio sui futuribili, ipotizziamo0 che sorga un conflitto, sul quale verrà chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale.
Ci troviamo dunque prevedibilmente all’inizio di una “never ending story”.
Risulta dunque forte la tentazione di tagliare il nodo gordiano avocando “de facto” alla regione le competenze proprie dello Stato.
In qualche caso ciò è già avvenuto.
Il Sindaco di Genova ha nominato, con grande risonanza mediatica, degli “ambasciatori” della sua città.
Conosciamo di persona uno di questi “diplomatici”, il quale può vantare una lunga residenza ed una profonda conoscenza del paese in cui è stato “accreditato”.
Nella maggior parte dei casi, gli stati esteri considerano questi personaggi alla stregua di privati cittadini.
E’ tuttavia anche possibile che un governo straniero riconosca unilateralmente lo “status diplomatico” ai rappresentanti di una entità priva della personalità giuridica di diritto internazionale.
Sui Campi Elisi si affaccia una sola ambasciata: quella del Québec, che notoriamente non è però indipendente.
La Francia si comporta tuttavia nei suoi confronti come fosse tale.
Il Canada non ha mai protestato.
Ci informano che la Russia ha assunto lo stesso atteggiamento nei riguardi della “ambasciata di Genova”.
“Ad colorandum” il Sindaco Bucci ha rivestito l’abito del Doge della repubblica, come per dimostrare che si considera un capo di stato.
Risulta chiaro che il suo “ambasciatore” a Mosca (per la precisione si tratta di una gentile “ambasciatrice”) per il momento non va oltre il godimento dello “status” diplomatico.
L’Italia si comporta con la Russia come il Canada con la Francia, e fa finta di non vedere.
Che cosa accadrebbe però se il sedicente “ambasciatore”, essendo anche accreditato quale plenipotenziario, stipulasse un atto di diritto internazionale?
Ritornando all’esempio della Norvegia, ricordiamo che per un certo tempo i suoi consoli operarono senza avere ancora titolo per rappresentare uno stato: la dichiarazione di indipendenza giunse dunque a sanare “ex post” gli atti da esso compiuti anteriormente.
Qui ci riferiamo ad una situazione di cui abbiamo ugualmente trattato: quando la Lombardia reclamava misure più restrittive contro l’epidemia, il governo di Roma si affrettava ad adottarle, temendo evidentemente di dover sollevare un conflitto di competenza: soprattutto in quanto nelle more del giudizio della Consulta, la Lombardia (e con essa altre regioni) avrebbe considerato vigenti le proprie disposizioni, malgrado la loro manifesta nullità.
Come avrebbe ro dovuto comportarsi gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria?
Conformandosi con le norme della regione, essi avrebbero aderito ad un atto rivoluzionario; se invece si fossero attenuto da quanto stabilito dallo Stato, Fontana li avrebbe accusati di agire agli ordini di un occupante “straniero”.
Questa rincorsa tra Milano e Roma che ricorderebbe – se la situazione non fosse drammatica, anzi tragica – le pellicole di Ridolini, pare giunta al capolinea da quando i “governatori” della Calabria e della Lucania hanno chiuso il confine con l’Italia.
Il presidente della Basilica è un generale della riserva, che come tale ha giurato fedeltà alla repubblica.
Il generale Robert Lee, quando la Virginia aderì alla Confederazione, si dimise dall’esercito degli Sati Uniti.
Il suo pari grado di Potenza saprà dimostrare la stessa coerenza?
Che cosa faranno Conte e la Lamorgese se un corpo di polizia regionale erigerà dei posti di blocco sul confine?
Avremo anche noi l’equivalente del bombardamento di Fort Sumter?
Se fosse ancora vivo Monicelli realizzerebbe un film più divertente di “Vogliamo i colonnelli”.
Nel frattempo, la titolare del Viminale, insolentita pubblicamente dal sindaco di Messina, lo denuncia per vilipendio.
Se il Ministro dell’Interno ritiene che il comportamento tenuto dai cittadini sbarcati a Cariddi possa essere controllato esclusivamente dalla polizia e dai carabinieri, dovrebbe piuttosto diffidare il Sindaco dall’esercitare delle competenze che non gli spettano.
L’applicazione in questa materia di una normativa comunale, pretesa dal primo cittadino di Messina, configura l’abuso in atti di ufficio, ovvero l’esercizio abusivo di funzione pubblica, reati ben più gravi del vilipendio.
Questo non è tempo di tutelare la propria carica, quanto piuttosto di affermare le prerogative dello Stato.
Potremmo continuare a lungo negli esempi, ma quanto fin qui esposto ci pare più che sufficiente per constatare come sia in atto il processo detto di “deperimento dello stato”, consistente nella sua incapacità di imporre il rispetto della propria volontà, tanto nella forma del precetto quanto nella forma della sanzione.
Il sindaco di San Bartolomeo al Mare, in provincia di Imperia, si è appostato per una notte intera sullo svincolo dell’autostrada, interrogando gli automobilisti di passaggio, controllandone i documenti e rilevando i numeri di targa.
La Prefettura lo ha fermato.
Purtroppo, però, non si è potuto fare altro: i manicomi sono stati chiusi.