Diverse novità si segnalano in ambito giuridico per quanto riguarda le misure adottate al fine di contrastare l’epidemia.
In primo luogo, due quotidiani a diffusione nazionale, “La Repubblica” ed il “Corriere della Sera”, hanno rivelato l’esistenza di un documento elaborato il 20 gennaio 2020 dal Ministero della Sanità, contenente un “piano nazionale di emergenza” predisposto per fronteggiare le conseguenze del virus.
Anche se le previsioni contenute nel testo sono state surclassate dalla realtà, riguardando soltanto mille pazienti ricoverati dopo cinque mesi dalla registrazione del primo caso ed una occupazione dei reparti di terapia intensiva pari al settanta per cento, che sarebbe stato raggiunto nell’arco di cinque mesi, la secretazione non può essere comunque giustificata.
Tanto più che tale misura è rimasta in vigore anche quando le dimensioni dell’epidemia si sono rivelate ben più gravi del previsto.
Tale situazione continua incredibilmente ancora oggi.
Se il ministero potrebbe da un lato sottrarsi, desegretando il documento, all’accusa di essersi accertato in ritardo circa la gravità e l’imminenza del pericolo, verrebbe d’altro lato dimostrata la sua negligenza nell’adottare le necessarie misure profilattiche.
È stato infatti necessario attendere il mese di marzo perché venisse decretato il “lockdown”.
Ora il comitato parlamentare di vigilanza sui servizi chiede di acquisire il documento redatto il 20 gennaio: il che permetterà comunque di valutare le responsabilità politiche per quanto accaduto.
Sul tema interviene autorevolmente il generale Carlo Jean, nella sua qualità di esperto di strategia, docente ed opinionista.
Così si esprime l’alto ufficiale: “Se avevano un piano che contemplava potenzialmente centomila morti, la prima cosa da fare era comprare mascherine, tamponi, preparare il sistema sanitario fin da gennaio. Molto probabilmente quel piano non è stato letto dai decisori politici, altrimenti non si spiega l’inerzia che è seguita. Resta il fatto che l’emergenza è stata fronteggiata con due mesi di ritardo.
Il piano è di gennaio.  Roberto Burioni, per esempio, che molto probabilmente era a conoscenza o avevo sentito qualcosa del piano, l’8 gennaio lanciò l’allarme sui casi sospetti di polmonite in Cina. Le sue previsioni si sono avverate. La responsabilità è delle massime cariche di governo. E poi di chi si è messo a giocare con aperitivi, ristoranti cinesi, magliette. È difficile gestire i guai quando si hanno come consulenti persone che twittano video con pupazzi di Trump presi a calci”.
Anche se il generale dice di non credere “che sia per i buoni rapporti con la Cina che uno sottovaluta una cosa del genere”, e poi aggiunge: “Può farlo Di Maio, ma Conte no”, risulta comunque trasparente, dalle sue parole, l’allusione alla presenza di elementi filocinesi (ed anti americani) nell’apparato amministrativo del ministero, come pure tra la pletora di componenti dei vari “comitati”.
Questi organismi sono stati costituiti per sovrapporsi, sostanzialmente esautorandoli, agli organi dello stato.
In pratica, si sono prodotti nel nostro governo due fenomeni: da una parte, il Presidente del Consiglio ha avocato a sé tutte le competenze attribuite dalla legge ai diversi dicasteri; dall’altra parte, i vari “commissari”, ciascuno dei quali fiancheggiato da una falange di “esperti” (la cui competenza scientifica risulta in qualche caso quanto meno dubbia) hanno finito per comporre una sorta di governo “de facto”, dal quale proviene non soltanto un’attività amministrativa illegittima per incombenza, ma anche – quanto risulta ancora più grave – una produzione legislativa sulla cui manifesta nullità ci siamo già dilungati.
Mediante i decreti del Presidente del Consiglio si possono infatti emanare esclusivamente degli atti amministrativi.
Vale anche la pena di ricordare come gli atti amministrativi debbano essere sempre motivati nel merito mantenendo segreto il documento redatto presso il ministero della sanità il 20 gennaio, si è sottratto un “considerando” di fondamentale importanza a tutta la successiva attività amministrativa, contribuendo alla sua illegittimità per carenza di motivazione nel merito.
A Palazzo Chigi e dintorni c’è però chi preferisce farsi annullare gli atti amministrativi pur di non offendere i cinesi.
I quali non sono forse degli “untori”, ma trascurano l’obbligo, imposto anche a loro dai trattati, di allertare gli altri stati circa il pericolo di epidemia.
Per cui si annunzia un’azione civile intentata contro la Repubblica Popolare da un “quivis de populo” italiano.
In Via Bruxelles, invece dei buongustai che accorrono all’Ambasciata ogni primo ottobre per degustare i “nidi di rondine” e gli “involtini primavera”, è atteso l’ufficiale giudiziario.
Contro il “celeste impero”, con una sorta di nemesi storica della continua pirateria praticata dal genio trasmissioni delle “esercito popolare di liberazione”, si è scatenata la guerra elettronica dei servizi segreti occidentali.
I quali hanno saccheggiato la memoria dell’Istituto Virologico di Wuhan, dimostrando l’omertà delle autorità di Pechino, dedite a nascondere l’origine ed il possibile sviluppo della epidemia.
Può anche darsi che vanga fuori qualche contatto epistolare con certi “esperti” italiani.
L’insigne costituzionalista professor Sabino Cassese solleva da parte sua forti dubbi sulla regolarità della procedura mediante la quale il commissario Arcuri ha disposto l’adozione da parte dello stato della “app” che permetterà di controllare ogni nostro spostamento.
È anche venuto fuori che la ditta concessionaria “Bending Spoons” vanta – guarda caso – non meglio precisati “soci asiatici”.
La parola “spoon”, cioè cucchiaio, viene usata – al pari di “forchetta” – per alludere al “magna magna”.
A volte si cade in una volontaria autoironia, tanto più che in questo caso i cucchiai risultano essere più di uno.
Ha dichiarato il professor Cassese: “Per una decisione così rilevante (…) meraviglia che non c’è stata una legge o un atto di una amministrazione”.
In poche parole, l’autorevole studioso esprime una duplice denunzia.
In primo luogo la costituzione di un sistema di controllo che comporta l’intromissione nella privacy dei cittadini esige l’emanazione di un testo legislativo in cui vengano precisati le modalità ed i limiti dell’attività svolta da un organo dello stato: tanto più se esso non fa parte della polizia giudiziaria ma dipende dal potere esecutivo.
In secondo luogo, si ravvisa il mancato svolgimento di una licitazione per scegliere il contraente della amministrazione pubblica, con cui si è svolta evidentemente una semplice trattativa privata.
Nessuno può negare che nella fattispecie ricorra il requisito dell’urgenza, ma non risulta svolto nessun accertamento sulla idoneità della ditta “Bending Spoons” a svolgere un servizio tanto delicato per lo stato.
E dunque “non basta un’ordinanza”, come conclude tacitianamente il professor Cassese.
Ogni atto legislativo è sempre passibile di un controllo di legittimità costituzionale.
Di ciascun atto amministrativo si può viceversa disporre l’annullamento.
Per non parlare della possibilità che vi si configurino dei reati, quali l’abuso in atto di ufficio, ovvero l’interesse privato in atti di ufficio.
Vedremo che cosa ne pensano le procure.
Nel frattempo, un gruppo di magistrati in servizio nella Val d’Aosta, esprimendosi “uti cives” – e dunque al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni – espone il fondamento di una possibile questione di legittimità costituzionale delle norme che limitano la libertà di movimento dei cittadini.
Ci permettiamo in primo luogo di elogiare la “carità di patria” di questi giudici, i quali glissando elegantemente sul fatto che si sia preteso introdurre le nuove norme mediante degli atti amministrativi: “unde” la loro nullità, che solleva la consulta dall’addentrarsi in un imbarazzante giudizio di merito.
I magistrati aostani non negano la necessità di adottare misure profilattiche, ma appuntano la loro attenzione sulla proporzionalità tra la limitazione di un bene quale la libertà personale e la tutela di un altro bene, nel caso specifico la salute.
La misura della palese sproporzione viene suggerita dalla stessa conformazione orografica della “Vallée”, ove un montanaro che esca di casa per passeggiare sulle “gloriose cime”, ove non incrocia verosimilmente anima viva – e dunque non può contagiare nessuno – incorre tuttavia nei rigori della legge (sempre che di legge – ma con l’iniziale minuscola – si possa parlare).
Per giunta, i togati, giustamente indignati per lo spreco di risorse dello stato (dalla fine della guerra non si era mai visto un simile dilagare di uniformi), si domandano “se davvero non si sappia immaginare un modo più utile per spendere il denaro pubblico”.
Questi cittadini non hanno evidentemente mai visitato alcuno stato retto da una dittatura: quando siamo arrivati nel paese di adozione, abbiamo veduto letteralmente più gente in divisa che in borghese.
“Et – come si dice per l’appunto in Val d’Aosta – pour cause…”.

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Mario Castellano 26/04/2020
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