Se un lavoratore dipendente si ammala essendo stato contagiato dal virus che ha causato l'attuale epidemia, può beneficiare delle prestazioni garantite dall'INAIL.
Se un lavoratore dipendente si ammala essendo stato contagiato dal virus che ha causato l'attuale epidemia, può beneficiare delle prestazioni garantite dall'INAIL.
Questa decisione del governo Conte pare dettata dalla preoccupazione di tutelare quella che un tempo veniva definita onicomprensivamente come la "classe operaia".
In primo luogo, vale la pena di rilevare il carattere bassamente demagogico della nuova norma.
Non capiamo infatti sulla base di quale valutazione scientifica si annovera il "coronavirus" tra le malattie professionali connesse con l'attività lavorativa, come ad esempio la tubercolosi per i lavori del gesso o i tumori per gli addetti alla produzione di vernici.
L'unica categoria per cui tale equiparazione risulta sostenibile è quella degli operatori sanitari.
Quanto a tutti gli altri, a parere degli esperti la possibilità di contrarre l'infezione sul luogo di lavoro, o comunque a causa dell'attività svolta non risulta maggiore rispetto a quella di restare contagiati a casa loro o in un luogo pubblico, se invece si stabilisce per legge una presunzione, sia pure "juris tantum", in base alla quale ogni dipendente si ammala dove presta la sua opera, il datore di lavoro viene inevitabilmente esposto tanto ad una azione civile per il risarcimento del danno quanto soprattutto ad una azione penale, a seconda ddei casi per il reato di omicidio colposo o di lesioni colpose.
Il malcapitato imprenditore potrà esibire tutte le misure di sanificazione che avrà adottato, passando indenne per ogni possibile ispezione sanitaria.
Gli si potrà sempre opporre il fatto - per esempio - di non aver ripetuto l'irrorazione di soluzioni nebulizzate contro il virus con la frequenza prescritta dalle norme.
L'onere della prova, tanto in sede civile quanto in sede penale, incombe sempre su chi intraprende la relativa azione.
Il fatto stesso che venga rovesciato sul convenuto, o sull'imputato, dà luogo ad uno stravolgimento dei principi giuridici più elementari, ed espone la nuova norma ad una pronunzia di llegittimità costituzionale da parte della consulta.
Inotre, la presunzione della responsabilità civile e penale a carico del datore di lavoro è solo in apparenza "juris tantum", in quanto la prova contraria risulta - come si dice in dottrina - la classica "prova diabolica" in quanto impossibile da produrre.
Si tratta dunque di una presunzione "juris et de jure".
A questo punto, all'imprenditore che non vuole finire condannato in sede penale e per giunta rovinato per la impossibilità di risarcire la parte lesa, non rimane altra scelta al di fuori della cessazione dell'attività, con relativa perdita di posti di lavoro.
Perchè tanto accanimento da parte del Governo?
Per quale motivo non imporre l'onere della prova al dipendente che malaugaratamente si ammali?
Perchè in base alla mentalità vetero-comunista di derivazione cinese propria di Conte e del suo movimento, che influisce anche sui democratici come un "richiamo della foresta", tale da farli tornare alla loro originale ispirazione ideologica, la proprietà privata dei mezzi di produzione costituisce un furto, e dunque un delitto da perseguire.
In modo, però, surrettizio, inventando a tal fine ogni possibile pretesto.
Naturalmente, verrà mostrato ai visitatori stranieri il bar di fronte a Palazzo Chigi per provare che in Italia esisterà la più ampia libertà di impresa.
Se fossimo al posto dei componenti le delegazioni estere, sospetteremmo che il titolare e i dipendenti fossero in realtà delle comparse di Cinecittà.
Rimaste naturalmente anche esse disoccupate.
L'industria del cinema rientra infatti tra le attività da scoraggiare per mettere fine allo sfruttamento dei lavoratori.
Finalmente, dopo interminabili ed indecifrabili negoziati nel governo e nella maggioranza, dopo avere millantato davanti a tutta l'Italia ed alla opinione pubblica internazionale l'avvenuta emanazione di un Decreto Legge che in realtà non esisteva -  di cui comunque i giornalisti presenti alla sua conferenza stampa si erano ben guardati dal richiedergli una copia - Conte lo ha varato, ad una ora della notte in cui i quotidiani hanno già chiuso le edizioni, prima di un fine settimana nel corso del quale non aprono la borsa e le banche.
Dal 3 giugno prossimo si potrà di nuovo circolare liberamente su tutto il territorio nazionale, e si potrà entrare e uscire dall'Italia senza essere sottoposti a quarantena al ritorno.
Fin qui le poche novità positive.
Prevalgono di gran lunga quelle negative.
Le imprese non riceveranno nessun aiuto per risollevarsi, mentre la stagione turistica, date le restrizioni imposte all'attività dei ristoranti, degli alberghi e degli stabilimenti balneari, si può considerare perduta.
L'Italia costruita a partire dalla Liberazione è finita, sostituita da un paese immerso nel grigiore di uno stato di polizia, che fino ad ora giustificava la propria funzione con pretesti di carattere "profilattico", mentre da ora in poi si fonderà sul mantenimento di un ordine ispirato dallo "animus" di scoraggiare la libertà di intrapresa.
Rimane, formalmente, quella politica, che però - senza la libertà politica - non può prosperare.
Certamente, verranno represse anche certe furberie, che comunque avevano aiutato il paese a progredire uscendo dalla povertà.
Sarà comunque coartata l'inventiva, cioè la capacità creativa della nostra gente, che si era espressa fin dall'età comunale, e poi aveva generato il Rinascimento.
L'Italia del dopoguerra aveva applicato questa attitudine alla crescita economica, ma anche a quella civile: ci fu un tempo in cui in ciascuna delle nostre "centocittà" si dibatteva, si sperimentavano nuove aggregazioni politiche, si aprivano strade nuove nella cultura.
Ora tutto ciò lascia il passo ad una repressione basata sulla misurazione ragionieristica delle "distanze sociali" e sui divieti più cervellotici.
Piangiamo su di una generazione - quella dei nostri figli - destinata a crescere nella cultura del sospetto, della delazione della meschina reciproca contestazione della violazione delle regole.
Tutto ciò nel nome di un modello politico - quello cinese adottato da Conte - basato sul totale controllo della popolazione, anche nella vita privata.
I più sconfitti sono i "democratici", che dopo avere combattuto per la libertà di divorzio, di aborto, di eutanasia, di unioni omosessuali, si sono ridotti a sostenere il divieto di ballare e di magiare al ristorante.
Ammesso che ci siano ancora i soldi per concedersi simili "lussi".
La nuova Italia non piacerebbe allo spirito libero di Antonio Gramsci, ma sarebbe gradita a Palmiro Togliatti, con la sua mentalità di furbo "travet" torinese, ammantata di disciplina ideologica.
Oggi, però, l'ideologia dominante è quella pauperistica di Conte e di Casaleggio: la loro decrescita non si annunzia per nulla "felice".
La peggiore vergogna è però quella dei giornalisti, che sembrano colpiti da una sorta di schizofrenia.
Nella stessa edizione di un quotidiano figurano interviste con il Presidente del Consiglio e con i suoi ministri ispirate dalla più ripugnante piaggeria, ma anche - relegate nelle pagine interne - le cronache di un paese disperato, ridotto ad elemosinare il cibo nelle mense dei poveri.
Nessuno ha il coraggio di domandare: "Presidente Conte, non si accorge che la gente ha fame?"
La risposta sarebbe comunque quella tipica deli autocrati, attribuita a Maria Antonietta: "Se non hanno del pane, mangino delle brioche".
Domani, tuttavia, Eugenio Scalfari paragonerà su "La Repubblica" Conte a Cavour.
Il "fondatore", quasi centenario, offre la conferma vivente del famoso verso di Menandro: "E' caro agli dei chi muore giovane".
Cavour aveva liberato le energie produttive, Conte le comprime: l'uno era un liberale, l'altro è un autoritario.
In Via Cristoforo Colombo non se ne sono accorti: in realtà, non sanno più quale sia la differenza.

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Mario Castellano 19/05/2020
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