La furia iconoclasta che si sta abbattendo – in forma di abbattimento e di imbrattamento di statue – sta ormai debordando da ogni limite: si è cominciato con i mercanti di schiavi (e fin qui “nulla quaestio”), poi si è proseguito con gli esploratori ed i partecipanti alle guerre coloniali (Cristoforo Colombo e Indro Montanelli), quindi ci si è rivolti contro chi aveva profferito espressioni razziste (Winston Churchill e Andrew Jackson), ma ora vengono coinvolti anche personaggi come Miguel de Cervantes colpito attraverso la figura di Don Chisciotte, e addirittura Gesù Cristo.
Del primo non si ricorda una particolare tendenza al razzismo, ma probabilmente qualche musulmano si considera offeso dalla sua partecipazione alla battaglia di Lepanto (in cui perse il braccio sinistro); nel caso di Gesù Cristo, il fatto di essere un extraeuropeo (per giunta vittima dell’imperialismo romano), non riscatta l’uso che del suo pensiero fecero le potenze coloniali. Del quale però il Nazareno non aveva alcuna colpa.
La prima nostra riflessione si riferisce alla circostanza che gli abbattimenti delle statue (seguiti a volte da nuove erezioni, come nel caso di Lenin) costituiscono l’atto conclusivo delle rivoluzioni, il momento in cui ai despoti viene anche inflitta la “damnatio memoriae”.
Questa volta, invece, la rivoluzione prende le mosse dall’avversione ai simboli. Ciò significa che non si tratta di una rivoluzione tanto politica, quanto piuttosto culturale.
Per meglio dire, l’attuale avversione a certe memorie costituisce l’esito visibile di una tendenza che viene da molto lontano nel tempo: la fine dell’eurocentrismo, cioè della fase storica iniziata con l’attentato di Sarajevo e proseguita con l’affermazione del principio di autodeterminazione, la cui applicazione su scala mondiale avrebbe causato la fine del colonialismo. Con il quale si avviò al tramonto la convinzione – certamente errata – di una asserita superiorità della cultura occidentale. Su cui si fondava l’altrettanto asserita nostra “missione”, consistente nel civilizzare i “selvaggi”: quello che Kipling, massimo cantore del colonialismo, definì “il fardello dell’uomo bianco”.
Che cosa aveva indotto le precedenti generazioni a ritenere che noi fossimo “superiori”? Un particolare aspetto della nostra cultura, cioè la tendenza a trasferire le conoscenze scientifiche nello sviluppo della tecnologia.
Questo spiega perché gli europei sono arrivati in America, mentre gli indigeni di quel continente non possedevano imbarcazioni in grado di attraversare l’Atlantico. Spiega anche perché le corazzate inglesi prevalsero sulle giunche cinesi nella guerra dell’oppio.
Per quale motivo noi trasferiamo le conoscenze scientifiche nella tecnologia? A causa della nostra concezione del tempo.
Il tempo è la successione degli eventi: se li si considera posti su di una linea retta, che va all’infinito, ci si propone di accelerare questa successione.
Tale preoccupazione è invece aliena da chi ha del tempo una concezione circolare: è infatti inutile accelerare, se si ritorna sempre al punto di partenza.
Abbiamo avuto la ventura di vivere questa divergenza con nostra moglie, che è radicata nella cultura Indo americana. Nel paese di adozione, si tramanda la leggenda della “carreta nahvatl” (che prende il suo nome dagli abitanti originari del Nicaragua): nelle notti di tempesta, si ascolta il rumore delle ruote di legno piene (cioè senza i raggi) di un carro trainato dai buoi ormai scheletriti, come anche i passeggeri, tutti condannati a vagare in eterno. Qual è la loro colpa? L’essere caduti – precisamente per avere usato la ruota – nella tentazione di accelerare il tempo.
Questo, nella cultura ancestrale, costituisce l’equivalente del peccato originale nelle religioni “abramitiche”.
I popoli indo americani conoscevano la ruota, ma non la usavano nemmeno per costruire i carretti a mano, bensì soltanto i giocattoli. I cinesi scoprirono gli esplosivi, ma li impiegavano solamente per i fuochi artificiali, e non per cacciare; i Maya – così come gli indiani e gli arabi – avevano sviluppato conoscenze matematiche ed astronomiche superiori alle nostre.
Ora che il predominio occidentale sta finendo, anche chi non ha origini extraeuropee si rende conto di due ingiustizie: quella causata dal dominio coloniale e quella dovuta alla sua presunta giustificazione.
È dunque logico che chi viene da altri continenti abbatta le statue dedicate a certi personaggi.
Nei paesi già colonizzati si è cambiata anche la toponomastica stabilita dagli europei.
Quanto non condividiamo è la pretesa di imporci una particolare visione della storia: si ripete, rovesciando le parti, quello che abbiamo fatto noi.
Churchill giustificava l’esistenza dell’impero britannico, ma combatté il razzismo praticato dai nazisti.
Certi comportamenti finiscono per esasperare l’altrui identitarismo. Non c’è – in questa tendenza – nulla di male. È giusto che ogni popolo si emancipi, esercitando l’autodeterminazione.
Presto, nell’Italia meridionale, vedremo abbattere le statue di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II. Non vorremmo però che si smettesse di studiare a scuola la Divina Commedia, perché Dante Alighieri è un autore “straniero”.
In Spagna non si insegna agli studenti dove nasce un fiume, se le sue sorgenti si trovano in un’altra “autonomia”, cioè in un’altra regione.
“Ne quid nimis”.