Uno dei principi fondamentali stabiliti dalle norme sul pubblico impiego consiste nel fatto che ad ogni dipendente viene attribuito il diritto – prima ancora del dovere – di prestare la propria attività lavorativa.
Da tale principio discendono diverse conseguenze.
Ci limitiamo in questa sede a citarne una: quando un nuovo dipendente viene destinato ad un ufficio, il suo responsabile è tenuto ad assegnargli – mediante l’emanazione di un apposito atto amministrativo – le mansioni, che devono corrispondere naturalmente con la rispettiva qualifica. Se non vi provvede, il responsabile dell’ufficio si espone a due ordini di conseguenze: sul piano del diritto amministrativo, gli può venire richiesta l’emanazione di un ordine di servizio, e qualora non adempia è ammessa l’impugnazione, anche in sede giurisdizionale, del silenzio-rifiuto; sul piano penale, costui può incorrere nel reato di omissione di atti d’ufficio.
Tutte queste nozioni giuridiche devono essere richiamate in connessione con quanto sta avvenendo a Palazzo Chigi.
I funzionari appartenenti all’organico della Presidenza del Consiglio hanno citato in giudizio il professor Conte in quanto, dopo la temporanea interruzione dell’attività lavorativa dovuta all’epidemia, è stato loro richiesto di non riprendere servizio.
Essendo stato violato un diritto soggettivo, costoro hanno agito in sede civile per ottenere il risarcimento del danno. Presumiamo che il giudice disponga altresì la disapplicazione dell’atto amministrativo con cui il Presidente del Consiglio ha disposto che i dipendenti del suo ufficio non riprendessero il lavoro.
Se fossimo nei panni di questo magistrato, trasmetteremmo anche gli atti del procedimento alla Procura, affinché valuti se quanto avvenuto configura il reato di abuso in atti d’ufficio (che – piaccia o meno al professor Conte – è ancora vigente).
Volendo essere maliziosi, potremmo insinuare che “l’avvocato del popolo” abbia di proposito proposto la sua abrogazione per cancellare la responsabilità penale relativa al comportamento tenuto nell’esercizio delle proprie funzioni.
Anche se non vi sarà nessuna condanna penale, risulta comunque inevitabile la disapplicazione dell’atto riguardato dall’azione civile.
Tra qualche tempo, dunque, una folla di funzionari si presenterà al portone di Palazzo Chigi, e richiederà formalmente l’assegnazione di nuove mansioni, ovvero la conferma di quelle svolte in precedenza. Il contenzioso, a questo punto, riprenderà in sede di giurisdizione amministrativa. Con quali conseguenze sul funzionamento dell’ufficio, è facile immaginare.
I dipendenti reintegrati non intenderanno certamente mancare al loro fondamentale dovere di fedeltà, in conformità con il giuramento prestato al momento di entrare in servizio. Come possano rispettarlo quando il responsabile dell’amministrazione da cui dipendono li considera inadatti a lavorare in questo settore dello stato, questo è il problema.
Una cosa è comunque certa: questa massa di frustrati è destinata a rimanere ulteriormente delusa quando troverà i suoi uffici occupati da altre persone, per cui mancherà anche lo spazio fisico in cui prestare servizio. Risulta infatti improbabile che a Palazzo Chigi si sia smesso di lavorare, ed anzi le luci vi rimanevano sempre accese di notte, come quella della famosa “finestra del duce” (il quale non spegneva mai le lampadine per alimentare la propria leggenda).
Chi c’era dietro i balconi dell’edificio rinascimentale? Forse dei funzionari “comandati”, o trasferiti da altri settori dell’amministrazione. Più probabilmente si trattava però di “consulenti”, associati con appositi contratti e posti alle dipendenze dei vari “commissari”.
Ecco perché Conte intende abolire la responsabilità amministrativa: la Corte dei Conti, composta da magistrati tutt’altro che fessi, potrebbe rifiutare la registrazione degli atti con cui è stata autorizzata la stipula di questi contratti, per il semplice motivo che la Presidenza del Consiglio avrebbe potuto provvedere con il personale già ad essa assegnato. Conte controreplicherà, naturalmente, chiedendo la registrazione con riserva.
Rimane comunque il problema di trovare la classica scrivania per tutti. Salvo che qualche dirigente intervenga nei panni del Cireneo, suggerendo ai reintegrati di prendersi un’aspettativa, o di richiedere una nuova assegnazione, oppure – “extrema ratio” – di farsi collocare a riposo. Il tutto – “ça va sans dire” – “per carità di patria”.
Babel scrisse la famosa frase: “essa non può fare a meno di sparare, perché è la rivoluzione”. Conte direbbe invece: “essa non può fare a meno di sparare cazzate”.
Neanche i bolscevichi pretesero che i componenti la massa degli insorti andati all’assalto del Palazzo d’Inverno si trasformassero “ipso facto” in dipendenti dello stato. Né lo chiesero gli squadristi dopo la “marcia su Roma”.
Mussolini ingiunse al contrario al direttore generale delle ferrovie di organizzare dei treni speciali per rimandarli subito a casa.
Peròn alloggiò i “descamisados” negli alberghi di lusso di Buenos Aires, ma non li volle alla “Casa Rosada”.
Carlo V, affacciandosi dal municipio di Alghero, proclamò “todos caballeros”. Da allora, gli abitanti della città sono tutti nobili (caso unico nel mondo).
Conte ha fatto lo stesso con i suoi compagni di partito, promossi sul campo funzionari pubblici. Nella nostra città, tale invidiabile sorte toccò anni or sono a tale Franco Brioglio, nominato dirigente del Comitato Olimpico Nazionale senza sostenere alcun concorso. Ora il suo primato è stato polverizzato.
Siamo precipitati al livello delle “repubbliche delle banane”, dove i seguaci del presidente di turno diventano tutti funzionari dello stato.
Redigendo il massimario della giurisprudenza amministrativa del paese di adozione, ne potemmo valutare le conseguenze: era come visitare un ospedale da campo in tempo di guerra.
Conte viene dal paese di Padre Pio: i due hanno in comune le doti taumaturgiche.
L’uno guariva i malati, l’altro trasforma gli analfabeti in dirigenti statali.

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Mario Castellano 04/07/2020
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