Il professor Massimo Cacciari, nel suo brillante articolo di fondo comparso su “La Repubblica” di venerdì 3 luglio,  sostiene una tesi che per chi – come l’ex sindaco di Venezia – proviene dalle fila dell’operaismo a lungo professato da certa sinistra italiana, suona singolare: il maggiore pericolo per la democrazia non è causato dal venir meno – a causa dell’attuale crisi economica – della vecchia classe lavoratrice (un tempo si sarebbe detto del proletariato), bensì dalla sparizione del ceto medio; che – annota Cacciari – “crolla nella distribuzione del reddito e nelle sue attese di promozione sociale”.
L’illustre cattedratico dimentica stranamente di citare un argomento molto importante a sostegno della sua tesi: quello consistente nella osservazione di quanto avvenuto negli ex paesi del “socialismo reale”, dove questo regime aveva distrutto per l’appunto il “ceto medio”, con il risultato che la sua caduta ha portato lo scatenamento delle tendenze nazionaliste più estreme, della xenofobia e del razzismo.
Torniamo però alla tesi sostenuta dall’autore, che rileva con ragione come nelle democrazie occidentali si fosse già realizzata una sintesi sostanziale tra il liberalismo ed il socialismo: in sostanza, i liberali avevano accettato lo stato sociale, ed i socialisti avevano accettato il parlamentarismo ed il pluralismo economico, rinunziando ad ogni prospettiva rivoluzionaria.
L’accezione in cui Cacciari usa il termine “socialismo liberale” si può dunque tradurre “tout court” con “democrazia liberale”, che l’autore chiama con il nome del suo principale pensiero ispiratore.
Premesso che concordiamo con la diagnosi di Cacciari, ci sia permesso di aggiungere un corollario. Se basta una catastrofe sociale, “quella che attraversiamo, dentro il cui vortice ci troveremo tra qualche mese” per cancellare l’influenza di un grande e radicato pensiero politico, ciò significa una sola cosa: che l’adesione a tale ispirazione era soltanto formale, superficiale e non abbastanza convinta.
Se nessuna persona di salde convinzioni le rinnega a causa di una disavventura economica, ciò vale anche, a maggior ragione, per i soggetti sociali. C’è stato, è vero, il precedente storico costituito dal fascismo e dal nazismo, quando l’ideale liberale – e la relativa concezione dello stato – vennero negate da questi regimi. Ciò non significa però che i liberaldemocratici abbiano consumato una apostasia di massa. Significa soltanto che essi vennero sconfitti e perseguitati.
Tuttavia – come dice Dante Alighieri – “s’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte”, ed il discorso interrotto con l’avvento delle dittature venne ripreso dopo la liberazione.
Quando Luigi Einaudi riprese la collaborazione con il “Corriere della Sera”, intitolò non a caso il suo primo articolo “Heri dicebamus”.
Cacciari sembra paventare che ora, invece, i liberaldemocratici si accingano ad una sorta di conversione collettiva al populismo, simile alla conversione al cristianesimo che Carlo Magno impose ai sassoni a Paderborn. In quella circostanza, però, l’alternativa consisteva nell’essere decapitati.
Oggi nessuno può minacciare questo atto di violenza. Ciò significa semplicemente che il pensiero liberaldemocratico dell’occidente si è esaurito.
Non a caso Cacciari esclude che l’attuale situazione sociale “possa produrre volontà politiche e seri progetti di riforma, che una perdita progressiva di status del ceto medio possa sfociare in nuove forme di organizzazione, superando la fase demagogico-protestataria”. Tutto ciò – annota sconsolatamente – è “pia illusione”.
Se dunque non si riesce ad “invertire l’impetuosa corrente di proletarizzazione del ceto medio”, si rischia la fine della democrazia.
Dove sta scritto, però, che la diffusione della povertà debba necessariamente indurre tutti quanti a divenire reazionari?
Questo esito diviene inevitabile se non si è capaci di ripartire i sacrifici. Questo è (o sarebbe) precisamente il compito della sinistra. Se però tale parte politica non è stata capace di ripartire i profitti nel tempo delle vacche grasse, tanto meno sarà in grado di ripartire le rinunzie nel tempo delle vacche magre: un compito, quest’ultimo, certamente più difficile.
Qui si palesa il fallimento soprattutto della sua componente socialista, che non ha saputo contrastare a suo tempo la tendenza all’egoismo sociale, o meglio al cannibalismo sociale, incarnato dalla destra di Berlusconi e di Salvini. Se poi consideriamo il ruolo svolto dalla componente liberale della sinistra, constatiamo un fallimento se possibile ancora peggiore.
Pensiamo a che cosa è accaduto nei mesi scorsi.
La democrazia italiana è già stata commissariata, mediante l’esautorazione del Parlamento e dello stesso governo, rispettivamente da parte dei “commissari” e dei “comitati”. Si è ormai instaurata l’autocrazia personale del Presidente del Consiglio, il quale legifera mediante i suoi decreti.
Finita l’emergenza sanitaria, tutto questo apparato giuridico, introdotto con la scusa di fare fronte ad un pericolo incombente non è stato neanche scalfito. Ora arriva l’emergenza sociale, che certamente offrirà l’occasione per rafforzarlo ulteriormente.
Conte persegue un lucido disegno di distruzione della democrazia liberale, e nessuno tenta seriamente di contrastarlo. “O il governo – scrive Cacciari – sarà in grado di pensare i provvedimenti che si prenderanno in autunno mantenendosi nel contesto liberaldemocratico, o non soltanto svanirà ogni possibilità di dare un senso al “socialismo liberale”, ma irreversibile diventerà la crisi della nostra stessa democrazia rappresentativa”.
Davvero il professore ritiene ancora possibile che il nostro governo si proponga non diciamo di difendere, ma quanto meno di lasciare sopravvivere il sistema democratico?
Cacciari non è certamente un giurista, ma non è necessario conoscere questa materia per rendersi conto dello scempio perpetrato ai danni dello stato di diritto. L’autore afferma – riferendosi alle competenze specifiche del governo – che occorre fare qualcosa per salvare il ceto medio.
Il professore non sembra però rendersi conto del fatto – evidenziato da tutti gli economisti – che Conte ha usato lo strumento fiscale per distruggere quanto ancora rimane di questa classe sociale. Esiste un nesso evidente tra gli indirizzi perseguiti dal governo sul piano politico, sul piano economico e sul piano giuridico.
Conte aderisce ad un partito dichiaratamente illiberale, di ispirazione autoritaria, che addirittura dichiara nel suo programma l’intenzione di abolire il Parlamento. “L’avvocato del popolo” tende inoltre ad eliminare il pluralismo sociale, colpendo sistematicamente quei soggetti – come gli imprenditori – che possono coagulare una opposizione al suo regime.
Il Presidente del Consiglio introduce inoltre “de facto” nuovi istituti giuridici – come i suoi decreti – con cui modifica a sua discrezione la legislazione vigente, per affermare un modello autoritario basato sulla eliminazione delle garanzie costituzionali.
L’abrogazione del reato di abuso in atti di ufficio ha lo scopo di rendere sostanzialmente immune chi esercita il potere dall’esercizio della giurisdizione penale. Il governo “legibus solutus” si dota inoltre di una polizia politica e pratica lo spionaggio elettronico “alla cinese”.
Cacciari può ancora illudersi che questa tendenza possa miracolosamente invertirsi con i primi freddi dell’autunno?
Caro professore, raccomandi piuttosto al suo amico Zingaretti di togliere la fiducia al governo. Questa è l’unica possibilità di evitare “la crisi della nostra stessa democrazia rappresentativa”.
Tutto il resto è soltanto chiacchiere da caffè.

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Mario Castellano 09/07/2020
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