Sabato cinque settembre, si confronteranno a Roma due Italie: quella del governo e quella dell’opposizione.
A partire dall’unità, la destra incarnava il governo, e la sinistra rappresentava l’opposizione. Poiché una autentica alternanza, come quella propria di tutte le democrazie compiute, non risultava possibile, una delle due parti agiva mobilitando la piazza, e l’altra dispiegando l’apparato repressivo.
In altre situazioni, in contesti culturali diversi, ciò avrebbe causato una rivoluzione. Se non risulta possibile conquistare il potere per la via parlamentare, lo si prende ricorrendo al metodo insurrezionale.
In Italia non abbiamo avuto né il riformismo praticato da chi assume il controllo del legislativo e dell’esecutivo secondo regole costituzionali condivise, né il rovesciamento violento delle istituzioni. Per cui la migliore definizione della nostra sinistra è quella espressa da due aggettivi: velleitaria e inconcludente.
Mussolini era stato il capo del partito socialista. Si è detto di lui che la consegna del suo prestigio e delle sue indubbie doti politiche alla parte avversa costituisse la logica conseguenza della constatazione dell’incapacità del movimento operaio a mettere in atto quanto esso rappresentava in partenza. Con la conquista del potere, avvenuta in seguito ad una guerra civile in cui la sinistra era risultata perdente, l’uomo di Predappio si sarebbe proposto di realizzare quel tanto di socialismo che le circostanze permettevano. L’errore consistette però nel far credere che il sostanziale congelamento dei rapporti tra le classi equivalesse ad una rivoluzione, la quale invece comporta la loro modifica. Molti, specialmente quanti avevano sostenuto il “duce” nel suo percorso politico, credettero invece in buona fede che si fosse instaurata la giustizia sociale.
Con la caduta del fascismo, la sinistra ritornò tuttavia al velleitarismo che l’aveva contraddistinta nell’epoca precedente: il partito comunista si precluse la possibilità di agire come forza riformista compiendo una scelta sbagliata, consistente nell’adesione ad un modello politico semiasiatico come quello rappresentato dalla Russia di Stalin, che lo allontanava dall’ispirazione libertaria del movimento socialista italiano, erede della tradizione radicale del Risorgimento. Il che condannava i seguaci di Togliatti – in prospettiva storica – ad essere travolti dalla fine dell’Unione Sovietica. La loro revisione ideologica avrebbe avuto ben altro significato e ben altra influenza sui destini dell’Italia se si fosse compiuta prima, e non dopo, la caduta del Muro di Berlino. La politica di Togliatti si basava sul rinvio del compimento delle aspirazioni dei suoi seguaci ad un futuro imprecisato, anzi immaginario, una mitica rivoluzione resa possibile da un mutamento dei rapporti internazionali. Che coincideva – nell’immaginario collettivo – nell’arrivo della Armata Rossa. La quale, a partire dal 1945, combatté soltanto delle ingloriose battaglie di retroguardia.
Ora alla segreteria del partito c’è Zingaretti, un ex comunista non certo tra i più intellettualmente onesti tra i suoi compagni, né tra i più conseguenti nella evoluzione ideologica, essendosi adeguato alla mediocre furberia di Veltroni. Il quale ha mantenuto ferma la irriducibile avversione di Togliatti alla socialdemocrazia, preferendo il modello “liberal” dei democratici americani alle idee del “rinnegato Kautsky”.
L’uomo del “Nazareno” compie però un passo ulteriore nel “descensus averni”, e rinunzia anche alla tardiva adesione alla liberaldemocrazia ordinando ai propri superstiti seguaci di allinearsi con Grillo, Conte e Di Maio: cioè, in pratica di accettare in prospettiva la dissoluzione del partito nel Movimento Cinque Stelle, o meglio nel seguito personale del Presidente del Consiglio. Senza considerare – data la sua pochezza intellettuale – che ciò significa annullare tutta la revisione ideologica compiuta tanto prima quanto dopo la caduta del Muro: ormai non ci si ispira più al “New Deal” di Roosevelt, né alla “nuova frontiera” di Kennedy, bensì al modello autoritario della Cina, ed anche alla sua prassi poliziesca.
Se gli si potesse proporre questa obiezione, Zingaretti risponderebbe come coloro che avevano seguito Mussolini nel suo percorso dal massimalismo al fascismo: Conte realizza quel tanto di populismo che la situazione interna ed internazionale permette.
Il punto debole di questo ragionamento è espresso precisamente dalla parola “populismo”. L’Italia avrebbe piuttosto bisogno di un autentico riformismo, non di un metodo di governo che blandisce tutte le pulsioni corporative e mafiose, che confonde il radicalismo con una prassi demagogica e clientelare basata sulla dilatazione incontrollata della spesa pubblica, praticata un tempo soltanto nel sud ed ora esportata anche nel settentrione.
Il nostro paese avrebbe bisogno inoltre di mantenere ferma l’ispirazione al pensiero liberaldemocratico europeo, anziché inseguire dei modelli autoritari terzomondisti. Né giova all’Italia mettere i suoi servizi di sicurezza alle dipendenze di quelli cinesi, da cui si stanno mutuando non soltanto le tecnologie, ma anche i metodi e l’ispirazione ideologica, propri di uno stato di polizia, anche se – come avviene in tutte le “democrature” – non è dichiarato.
L’opposizione che si accinge a sfilare per le vie di Roma è certamente anch’essa ispirata da ideali di tipo “terzomondista”, e la stampa di regime non ha difficoltà nel mettere alla berlina le sue parole d’ordine, che spaziano dal nazismo al “terrapiattismo”.
Gli ex comunisti hanno certamente motivo di compiacersi perché – per la prima volta da un secolo e mezzo – la polizia bastona la destra, mentre la “sinistra” assiste allo spettacolo dai balconi di Palazzo Chigi e della redazione de “La Repubblica”. Il problema non è però costituito da una sovversione che – come quella promossa in altri tempi dalla parte opposta – non ha nessuna speranza di imporsi. Il problema è se veramente il governo sia “di sinistra”.
Certamente, Zingaretti può affermare che ha fatto tutto quanto si poteva di “rivoluzionario”, proprio come a suo tempo Mussolini. In ambedue i casi, delle origini di sinistra si rimangono da esibire le forme, costituite ieri dalla mobilitazione delle masse, oggi dalla prassi populista.
I rapporti tra le classi rimangono però inalterati. C’è un’altra, e più inquietante analogia: Mussolini finì per allearsi con la Germania nazista, e l’Italia fu coinvolta nel suo disastro. Conte è allineato fin dall’inizio con la Cina. È proprio sicuro “l’avvocato del popolo” che le contraddizioni sociali e le tensioni etniche di quel paese, unite al suo avventurismo internazionale, non finiscano per causare una implosione, come è già avvenuto per l’Unione Sovietica?
Quando ciò avverrà, finirà anch’egli a Piazzale Loreto.