Nel 1944, molti abitanti dell’Italia occupata dovevano andare in giro portando con sé due lasciapassare, di cui uno rilasciato dai tedeschi e l’altro dai partigiani, facendo attenzione a non confonderli.
I nostri connazionali sono insuperabili nell’arte di barcamenarsi, immortalata dal Goldoni nel suo “Arlecchino servo di due padroni” e sviluppata nel corso dei secoli a causa del fatto che non erano padroni in casa propria.
Di questo aspetto del carattere nazionale ci ha fornito un ottimo esempio alcuni giorni or sono il direttore del supermercato in cui ci riforniamo quotidianamente delle poche, povere cose necessarie per la nostra vita. Il solito balordo al soldo della destra, mentre facevamo la coda alla cassa dietro di lui, ci ha gratificato della consueta dose di insulti. L’ordine tassativo del funzionario di polizia incaricato della nostra sicurezza è di non rispondere mai alle provocazioni, ed anche in tale circostanza lo abbiamo eseguito. Questa volta, però, il loro autore, non pago di avere esibito la sua volgarità e maleducazione, si è anche vantato con il direttore del proprio comportamento.
In seguito, lo stesso funzionario di una catena della grande distribuzione, ci ha fatto trovare una grande quantità di pane secco, che recapitiamo regolarmente ad un venditore di frutta e verdura del mercato coperto affinché nutra le sue galline. Costui ci regala a sua volta l’invenduto, che consegniamo ad una famiglia di vicini, in cui ci sono cinque figli.
La coesione del tessuto sociale dipende sempre più da queste “catene di Sant’Antonio”, nelle quali ci impegniamo non solo “amore Dei”, ma anche per seguire l’evoluzione della situazione sociale. Non siamo economisti, ma riteniamo che simili esperienze dicano di più di tanti editoriali del “Sole 24 Ore”, redatti dai cattedratici della “Bocconi”.
Mario Draghi ha reagito ad una scorrettezza di Conte dandogli con giusta ragione del maleducato, e rilevando che “l’avvocato del popolo” è assolutamente privo del senso dello stato. Con tutto il rispetto per l’illustre e benemerito economista, ci pare che egli abbia scoperto – in ritardo – l’acqua calda. Noi, molto più modestamente, ci eravamo accorti prima di lui, di quale pasta sia fatto l’uomo che governa l’Italia.
Tra i dirigenti della “Prima Repubblica” e l’attuale Presidente del Consiglio corre la stessa differenza che si poteva riscontrare tra i patrioti del Risorgimento, posti alla guida dell’Italia liberale, e Benito Mussolini.
Da una parte, si poteva riscontrare la “gentilhommerie” tipica dei grandi borghesi, dall’altra il plebeismo dell’uomo emerso dagli strati sociali più marginali. Da un lato, c’era la formazione accademica più raffinata, dall’altro l’approssimazione dell’autodidatta. L’unica colpa di Draghi, allievo del più esclusivo collegio dei Gesuiti e delle più prestigiose università italiane ed internazionali, consiste nell’essere nato con una generazione di ritardo.
Se il più alto dirigente della Banca Europea fosse vissuto nei tempi di Einaudi e di De Gasperi, o anche soltanto in quelli dei loro primi epigoni, sarebbe diventato Presidente del Consiglio, o quanto meno ministro dell’economia con pieni poteri. Oggi, invece, un misterioso incendio ha distrutto la sua villa. “La Repubblica”, malgrado le manifestazioni di amicizia di Scalfari nei suoi confronti, non ha dato notizia della reazione alla maleducazione subita. Il “fondatore” ha capito dove gira il vento, e si adegua.
Le indagini sul rogo che ha incenerito la villa di Draghi, svolte dalla polizia e dai carabinieri, non ne hanno d’altronde chiarito le cause. Essendo esclusa l’autocombustione, si può presumere si sia trattato di un avvertimento mafioso, come quello ricevuto puntualmente da chi non paga il “pizzo”.
La bruciatura con cadenza settimanale di bar e negozi costituisce l’oggetto di una sorta di rubrica fissa sui giornali della nostra provincia, che confina con la Francia. Si può immaginare che cosa avviene nel meridione.
A Draghi, in considerazione della proposta di chiamarlo alla Presidenza del Consiglio, qualcuno deve aver detto: “non ti impicciare!”. Quanto però più lo ha esacerbato – con giusta ragione – è il fatto che Conte abbia spiattellato il contenuto di un loro colloquio riservato.
Se vogliamo ricercare un precedente di questo episodio, possiamo risalire al dibattito tenuto a Montecitorio sulla legge elettorale con cui si sarebbe votato nel 1929, in base alla quale il numero di candidati della lista unica equivaleva a quello dei seggi, che i cittadini potevano soltanto accettare o respingere in blocco. Il vecchio Giolitti, nel suo ultimo discorso parlamentare, protestò per l’evidente carattere antidemocratico ed illiberale della nuova norma. Al che, Starace gli gridò: “tanto lei non ci sarebbe ritornato comunque alla Camera!”.
Conte ha inteso far capire a Draghi, con la stessa ineleganza, che non diverrà Presidente del Consiglio.
Non è più tempo, in Italia, di laureati ad Oxford, quanto piuttosto di personaggi come Di Maio. Contro il quale, naturalmente, Conte si guarda bene dal dimostrare la stessa “vis polemica” esibita nei riguardi di Draghi.
Gli ultimi epigoni del liberalismo dovranno prendere, come già negli anni Venti, la via dell’esilio, poco importa se esterno o interno.
C’è però un’altra morale che si può trarre dalla nostra avventura al supermercato. L’Italia assiste al dilagare della violenza. Un povero ragazzo “di colore” viene massacrato da un gruppo di fascisti “palestrati”. Naturalmente, l’episodio viene classificato come una manifestazione di violenza comune, e non razziale. La destra si scatena in ogni sorta di misfatto fisico e verbale, che “La Repubblica” censisce puntualmente, peraltro con piena ragione.
C’è però una differenza con le imprese degli squadristi dei primi anni Venti. Le loro azioni erano in funzione della instaurazione del regime fascista. Quelle dei loro attuali imitatori sono soltanto dei gesti – per quanto odiosi – di retroguardia. Il regime, questa volta, c’è già, e non ha bisogno del manganello per affermarsi.
La violenza della destra fa il suo gioco, in quanto Conte può far credere agli italiani che il suo governo costituisce l’unica alternativa alla violenza. Un discorso a parte merita l’aggressione a Salvini, perpetrata da una donna italo-congolese. I nemici del “capitano” affermano che costei ha agito in un “raptus” di follia. Questo si dice anche – “si parva licet componere magnis” – a proposito dei terroristi islamici. Viene in mente la definizione che un irlandese diede dell’ I.R.A.: “è uno stato d’animo”. Uno stato d’animo che spinge anche le persone più pacifiche a vendicare con la violenza le angherie subite dalla loro gente. Ciò non giustifica naturalmente simili azioni. Nel caso dell’africana di Pontassieve, è comunque più probabile che qualcuno abbia voluto inviare un avvertimento a Salvini, come si è fatto con Draghi bruciando la sua casa.
Il “capitano” – a differenza dell’ex direttore della Banca Europea – viene anche colpito dalla giustizia per via dei suoi scheletri nell’armadio. “Last but not least” – come direbbe per l’appunto Mario Draghi – il “capitano” è anche dedito alla violenza, quanto meno verbale. Né si ferma dinanzi all’illecito penale, come quando commette il reato di esercizio abusivo di funzione pubblica, agendo quale ufficiale di polizia giudiziaria.
Salvini è un emulo di Bokassa, mentre Conte viene dalla scuola di Putin e di Xi Jinping.