“Lady Becciu” è attesa nelle segrete del Vaticano.
Peccato che Castel Sant’Angelo non sia stato restituito alla Santa Sede con il Trattato del 1929: la signora è un’ottima reincarnazione della Tosca, anche se il mite cardinale Parolin sfigurerebbe nel ruolo di Scarpia.
Nel carcere del Governatorato venne tuttavia rinchiuso il famoso “Paolone”, maggiordomo infingardo del Papa, il quale asserì di esservi stato torturato dagli uomini del commendator Giani, al fine di estorcergli una confessione, nonché la delazione dei complici.  
Non crediamo che ci sia bisogno di simili metodi per chiarire una verità più importante di quella processuale: il Vaticano è una fabbrica di stipendi e di “fuori busta”, come quello lautamente elargito alla misteriosa dama di Cagliari, cui non corrisponde la minima disciplina, né la minima esigenza di adempiere alle mansioni attribuite a ciascuno dei dipendenti diretti. Peggio ancora per quanto riguarda quelli indiretti, dei quali non si conosce né l’identità, né il numero.  
L’esempio costituito da “Lady Becciu” risulta clamoroso: come è possibile che il “sostituto” non abbia mai chiesto un rendiconto del “lavoro” svolto, né delle spese sostenute dalla sua compaesana? Si dice che gli ebrei si aiutano tra di loro, ma i sardi sono – da questo punto di vista – insuperabili.  
Il cardinale, se anche uscisse da questa vicenda mondo dalla responsabilità penale, ha comunque agito come il peggiore dei funzionari, commettendo una “colpa in negligendo” che dal punto di vista morale costituisce una complicità con la profittatrice. La quale ha danneggiato la reputazione della Santa Sede anche qualificandosi come una sua agente segreta.  
In realtà, costei era tale soltanto per i gonzi: chi si vanta di essere un agente segreto, non può essrere tale. Sui particolari di questa squallida vicenda, si potrebbe a lungo infierire.  
“Lady Becciu” affermava di acquistare abiti e accessori “griffati” per corrompere le mogli dei dirigenti africani. I quali non hanno però bisogno di ricevere delle mance dal Vaticano, essendosi già arricchiti con il commercio delle risorse dei rispettivi Paesi. Becciu dovrebbe saperlo meglio di chiunque, essendo corrispondente di affari di un magnate del petrolio dell’Angola.  
Se questo caso è eclatante, il fancazzismo e l’approfittamento costituiscono la regola in Vaticano.  
Con questo, non intendiamo affermare che tutti i suoi dipendenti siano dei fannulloni e dei corrotti. Diciamo però, senza tema di smentita, che nessuno esige loro di lavorare e di comportarsi onestamente. Per cui quanti lo fanno – e ce ne sono certamente molti – agiscono così soltanto in base al loro senso morale e all’autodisciplina.  
Un “officiale” della Congregazione dei Religiosi, incapace di svolgere le proprie mansioni (si tratta di un notorio semianalfabeta), trascorre la giornata “lavorativa” deambulando avanti e indietro per Via della Conciliazione. I superiori non hanno nulla da dire?  
Disimpegnando le funzioni di consulente giuridico del compianto padre Fidenzio Volpi, nominato dal Papa Commissario Apostolico dei frati francescani dell’Immacolata, ci imbattemmo in alcune circostanze esemplari. Il povero religioso aveva in origine nominato un altro consulente, reclutato tra i frati della Provincia Lombarda del suo ordine. Quando però costui seppe che poteva contare soltanto sul rimborso delle spese, rifiutò di assumere le sue funzioni. Con tanti saluti al voto di obbedienza, nonché al voto di povertà: l’uomo esigeva infatti un lauto stipendio.  
Vallejo Balda, sedotto dalla musulmana Chaouqui (chissà le risate dei suoi correligionari alle spalle dei “kafir”), non aveva pronunziato il voto di povertà: era infatti appassionato di automobili di lusso. Valeva tuttavia per lui il voto di castità, l’unico non violato dal suddito di padre Volpi. Il quale venne querelato dai tradizionalisti.  
La domanda giudiziale risultava temeraria, e sarebbe bastato andare in giudizio per smentirla. La Santa Sede affibbiò però al Commissario Apostolico un difensore di sua fiducia, professore in uno dei molti atenei pontifici dell’Urbe, in cui aveva fatto assumere anche il figlio. Costui stipulò con la controparte una transazione, in base alla quale padre Volpi avrebbe dovuto corrisponderle una somma esorbitante. Su nostro consiglio, gli fu revocato il mandato, venne sostituito con un altro avvocato. Quando tale decisione fu comunicata all’illustre cattedratico, ipotizzando addirittura a suo carico il reato di infedele patrocinio, costui formulò delle vaghe ma inquietanti minacce.  
Non possiamo naturalmente affermare una connessione tra i due episodi, ma dopo qualche tempo padre Volpi morì avvelenato.  
Un noto “vaticanista” edita una testata, che viene usata a volte dalle fazioni in lotta nei Sacri Palazzi per i loro regolamenti di conti. Questo giornale non viene mai citato da Giuseppe Di Leo nella sua rubrica su “Radio Radicale”. Se non che non ha nulla da dire, ma lo dice. L’uomo viene mantenuto a spese della Santa Sede con due mogli (è infatti poligamo), il figlio e la nuora, la quale – come “Lady Becciu” – si veste nei negozi di moda più esclusivi. Una volta, ci capitò ci citare in sua presenza il Venti settembre: non ne aveva mai sentito parlare, ma si dedicava professionalmente alla informazione religiosa. Il suocero mandò una volta un suo giornalista in un Paese dell’America Latina, in qualità di inviato speciale. In realtà, era tanto speciale che non spedì mai un articolo, ma continuò a ricevere lo stipendio. Il suo “patron” aveva stabilito una sorta di gemellaggio con un avventuriero italo-francese, il quale annunziò nel salone di un grande albergo di Parigi – in presenza del Nunzio apostolico e di mezzo governo della “République” l’imminente uscita dell’edizione transalpina del giornale, che non si è mai vista.  
In seguito, i due promossero un convegno di studi storici, per cui il Vaticano concesse addirittura la sede. Inutile aggiungere che l’incontro scientifico, ampiamente pubblicizzato, non si è mai svolto. Se non avessimo avvertito la Segreteria di Stato, procurandoci delle minacce, tanto il francese quanto l’italiano sarebbero ancora accreditati presso la Santa Sede quali “mecenati”.  
Potremmo continuare a lungo gli aneddoti.  
Anche se il rigore del Papa ha permesso di stroncare i casi più gravi di corruzione, la mancanza di una normativa sulla gestione del bilancio e sullo “status” giuridico dei dipendenti – per non parlare di quanti a vario titolo sono a libro paga della Santa Sede senza risultare tali ufficialmente – rende ardua l’opera di moralizzazione intrapresa da Bergoglio. Che sarebbe ancora da iniziare se l’epidemia non avesse causato una situazione di guerra, in cui si impone un minimo di austerità e di disciplina.  
Il Papa riesce comunque a qualificarsi come la massima autorità spirituale – ed anche come la massima rappresentanza “politica” – di quella parte dell’umanità che chiede giustizia. Ci riesce però nonostante la gran parte del Vaticano non collabori con la sua opera. Se la Santa Sede  non corre il rischio di essere travolta dalla rivoluzione mondiale, ma anzi si trova tra i soci promotori, lo si deve a Bergoglio.  
Il rischio è che un soggetto estraneo alla Chiesa, e addirittura al mondo cristiano, offra di pagare a piè di lista tutte le spese del Vaticano, aggravate per giunta dal disordine amministrativo e dalla corruzione.  
La Cina lo ha già fatto, come lo avevano fatto in precedenza gli arabi del petrolio, per il tramite dell’E.N.I.. La signora Chaouqui era stata assunta inspiegabilmente in un incarico per cui non possedeva alcun titolo e alcuna esperienza, su raccomandazione dei dirigenti di questo ente.  
E se “Lady Becciu” avesse agito analogamente per conto di Pechino? La domanda non è campata per aria.  
Il pericolo, come abbiamo già scritto, consiste nella possibilità che l’autorità spirituale sia subordinata ad una autorità temporale.  
“Di quanto mal fu patre”, scrisse Dante a proposito della donazione di Costantino. Che in realtà non era mai avvenuta.  
L’accordo con i cinesi è invece avvenuto realmente.

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Mario Castellano 16/10/2020
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