La Repubblica” ha inopinatamente deciso di sostenere la candidatura di Carlo Calenda a sindaco di Roma.
L’ex ministro ha fondato un proprio partitino personale, seguendo l’esempio – illustre quanto fallimentare – di Dini, Monti, Passera e Montezemolo.
Forse la sua postulazione sarà sostenuta dai renziani, ma neanche questo risulta certo, né ufficiale.
Il “tottamatore” conta comunque pochi seguaci in giro per l’Italia, soprattutto nell’Urbe. Non si capisce dunque perché i dirigenti del gruppo G.E.D.I. abbiano deciso di creare un altro problema al malcapitato Zingaretti, che ne conta già tanti quanti sono i comuni e le regioni in cui i cittadini sono chiamati alle urne. In realtà l’appoggio offerto dall’uomo del Nazareno è ininfluente, dato che le elezioni amministrative in Italia, si qualificano ormai da tempo come contese tra comitati elettorali, in cui non conta l’investitura concessa dagli evanescenti partiti nazionali, né l’ispirazione ideologica, né la cultura politica, da tempo sparita dal dibattito pubblico, bensì la capacità dei vari candidati di interpretare le identità collettive. Basta scorrere l’elenco dei vincitori e dei perdenti dell’ultima tornata per rendersene conto.
Questo discorso vale d’altronde più o meno anche per il resto dell’Europa occidentale. La contesa è ancora politica laddove si è in presenza di megalopoli, che saranno probabilmente in futuro delle città-stato, caratterizzate dalla convivenza di molte diverse culture. In Italia, soltanto Milano appartiene a questa categoria, insieme con Barcellona, Parigi, Marsiglia, Londra, Berlino e Vienna. Tutte queste città eleggono dei sindaci la cui figura non è legata con delle identità ancestrali, ma riflette la composizione eterogenea della popolazione. A volte, come a Londra e a Parigi, si tratta addirittura di stranieri, quanto meno di origine.
Roma ha una sola identità collettiva, quella derivante dall’essere il centro del cattolicesimo ed anzi del cristianesimo occidentale, dato che il protestantesimo non esce dalla sua dimensione originaria, legata con l’Europa centro-settentrionale. Inoltre, mentre Parigi, Londra, Vienna e Berlino hanno modellato le loro caratteristiche sulla funzione di centro delle rispettive nazioni, Roma non c’è mai riuscita. Per un motivo molto semplice: la nazione italiana, indubbiamente esiste, ma non ha mai espresso un proprio stato, e dunque è rimasta policentrica.
Torino, Genova, Venezia, Firenze e Napoli sono delle capitali storiche. Roma è stata eretta a capitale in base ad un disegno intellettuale, divenuto progetto politico e realizzato in base al rapporto di forze, senza riflettersi nella coscienza e nella volontà collettiva. La città si è dunque gonfiata, ma non è cresciuta sul piano civile. Un solo sindaco, dal Duca di Sermoneta, insediato dopo il Venti settembre, fino all’attuale, ha concepito una propria idea della città, ed è stato Ernesto Nathan, non a caso eletto nell’età giolittiana. L’israelita Nathan, estraneo per la sua origine al dissidio tra i clericali ed i liberali, si propose di trapiantare sulle rive del Tevere quel modello funzionale, che vedeva incarnato da Parigi e Londra: non a caso si trattava di un uomo di formazione anglosassone.
Il giolittismo finì travolto dalla Grande Guerra, e con esso tramontò il sogno di Nathan, legato con una funzione pedagogica, non clientelare, della borghesia. L’irruzione delle masse nella vicenda dello stato, determinata dal conflitto del 1914, avrebbe imposto il loro inquadramento secondo una disciplina totalitaria.
Mussolini concepì Roma come capitale di un finto impero, ed i suoi sventramenti snaturarono la città senza darle funzionalità. La via che va dal Colosseo e Palazzo Venezia non è che la parodia dei Campi Elisi. Poi venne la mediocrità dei “palazzinari” e dei sindaci democristiani.
I successivi fallimenti di Alemanno, di Marino e della Raggi, che rappresentano ed accomunano i tre partiti maggioritari, hanno portato ad una conclusione che il primo dei tre ebbe almeno il coraggio di confessare: l’errore risaliva a Cadorna, e la soluzione consisteva nel restituire Roma al Papa.
Qui si innesta il discorso su Calenda. L’uomo costituisce la più tipica espressione del “generone” romano, cioè di una borghesia parassitaria che non esprime né lo spirito imprenditoriale dei milanesi, dei torinesi, dei genovesi e dei fiorentini, né la cultura dei napoletani, ma vive di prebende e fa promuovere i suoi figli asini – quale l’ex ministro confessa candidamente di essere stato – nei “diplomifici”.
Già Veltroni, reduce da una bocciatura in un prestigioso liceo dell’Urbe, emigrò a Cinecittà per fare il montatore per la serie “se non studi, vai a lavorare”. Con la differenza, però, che i figli della borghesia settentrionale, in questo caso, vanno a lavorare per davvero, mentre Veltroni si è dedicato alla politica.
Calenda si propone disciplina.
Il Papa riesce comunque