Conte ha affermato in Parlamento che non sappiamo quali saranno le caratteristiche della nuova Italia, ma certamente sarà molto diversa dall’attuale.
uesta frase è stata certamente notata dai rappresentanti diplomatici stranieri, dagli “agenti di influenza” e soprattutto dai servizi di sicurezza, che in questi tempi vigilano con particolare attenzione sulle nostre vicende.
Quale messaggio ha voluto trasmettere “l’avvocato del popolo”, non tanto ai distratti ed incolti parlamentari, quanto piuttosto a tutti costoro? Certamente Conte ha inteso dire che l’Italia è entrata in una fase di transizione, e che egli ha assunto la funzione di suo demiurgo. In simili circostanze, gli “uomini forti” si muniscono solitamente di un partito, destinato a divenire unico, o comunque egemone.
Questa seconda formula è propria delle cosiddette “democrature”, che vanno di moda quando le dittature dichiarate sono divenute “politicamente scorrette”.
Conte non ha, apparentemente, una ideologia, ed in questo egli si distingue da Erdogan e da Putin, cioè dagli altri “democratori” più in vista, i quali si ispirano ad un identitarismo nazionalista con una forte caratterizzazione religiosa. Facilitati, in ciò, dal fatto che Mosca è la “Terza Roma”, ed Istanbul era la sede califfato. Ciò giustifica e motiva le loro tendenze espansionistiche, o comunque egemoniche.
Conte non può rifarsi all’Impero Romano: il precedente di Mussolini gli nuocerebbe. Né può rivendicare l’eredità della Roma dei Papi, custodita gelosamente da chi sta sull’altra sponda del Tevere.
L’uomo si preoccupa dunque soprattutto – e questa è dal suo punto di vista una scelta azzeccata – di comporre un blocco sociale che dia fondamento al suo regime. La cui base è costituita dai dipendenti pubblici, i quali – nell’attuale pestilenza – sono come i sopravvissuti ad una epidemia anteriore, che, essendo immunizzati, si muovono con assoluta sicurezza. Per giunta, il lavoro a distanza li esonera dal timbrare il cartellino. Salvo nel caso dei tutori dell’ordine, i quali però vengono compensati con lauti “straordinari”, messi a bilancio. È significativo che in questo caso Conte non abbia fatto ricorso ad uno dei suoi decreti.
Osservando la riserva di legge, l’uomo ha voluto rassicurare i propri seguaci, dando loro la percezione di essere dei privilegiati. Gli altri vengono invece bastonati per decreto.
La funzione crea l’organo: la costituzione formale del partito di Conte avverrà quando la coalizione costituita intorno a lui avrà dato prova di sostenerlo a dovere. Il che, essendo i dipendenti pubblici una minoranza, sia pure numerosa e compatta, non può avvenire in un confronto elettorale. Come si risolve il problema? “Elementare, Watson”, avrebbe detto Sherlock Holmes: non votando più.
Il plebiscito in favore di Conte, simile a quello indetto da Napoleone III dopo avere compiuto il suo colpo di stato, si è già celebrato, e grazie a questa chiamata alle urne si è ancora riusciti ad eleggere alcuni governatori.
E’ significativo che non vengano indette le elezioni regionali in Calabria, dove questa carica è rimasta vacante.
Lo scontro avverrà dunque inevitabilmente nelle piazze, ma i poveri gestori di esercizi pubblici non hanno il “physique du role” necessario per sostenere gli scontri cui parteciperanno dunque i giovanotti mobilitati dal generale Pappalardo, con il suo variopinto seguito di “gilet gialli”, Casa Pound, Forza Nuova, e “curve” degli stadi. Assenti, per i noti motivi economici, i tifosi della “Rari Nantes Imperia”. Si tratta però di “fascisti”, e dunque non mancherà alla “Celere” il plauso di quanti si rifanno alla Resistenza. Sulla cui memoria Conte basa la propria legittimazione, come faceva Mussolini con il Risorgimento. Dimenticando che era laico, mentre il “duce” divenne clericale.
L’uso della Resistenza è però divenuto così disinvolto da evitare le obiezioni fondate sul fatto che si era trattato di un movimento patriottico e pluralista, mentre Conte è un burattino dei cinesi, e tende ad abolire la libera espressione politica: “de minimis non curat praetor”.
Qui si arriva alla sostanza del problema, alla rivelazione del significato della sua frase sibillina: Conte vuole una Italia terzomondizzata, tanto per lo stravolgimento dello stato di diritto, quanto per l’influenza di ideologie esotiche, quanto soprattutto per la sua composizione sociale.
Sparita la classe operaria con la fine della struttura industriale, distrutto il ceto medio, domina una massa di generici, di dequalificati, di atomizzati privi di una rappresentanza che possa influire sugli indirizzi di governo.
Cofferati aveva portato a Roma milioni di lavoratori. Tanto bastò perché i dirigenti comunisti, gelosi del suo successo, lo facessero fuori.
Landini si esibisce per un pubblico simile a quello riunito dal povero Proietti, con la differenza che quest’ultimo era un grande attore, mentre il tribuno emiliano è un guitto, che fa il buffone storpiando l’italiano, come Di Maio.
Nello stesso modo in cui Mussolini fondò lo stato di massa, Conte lo trasferisce nel Terzo Mondo. Poi l’identitarismo, che non trova più il suo riferimento nella nazione, ci porterà ai conflitti interni ed alla dissoluzione dello stato.
La decadenza della lingua letteraria comune, nostro principale fattore di coesione già molto prima della realizzazione dell’unità politica, costituisce un segnale che anticipa il futuro.