Tre notizie dei giorni scorsi ci aiutano a spiegare l’atteggiamento del Governo italiano nei riguardi di quanto avviene al di fuori dei nostri confini.
Nel primo caso si tratta – più che di un evento – della reazione da esso suscitata nei dirigenti di Roma, fedelmente riflessa dagli organi di stampa incaricati di diffonderne il verbo presso gli italiani.
Gli israeliani hanno deciso di eliminare il capo degli scienziati iraniani incaricati di fabbricare la bomba atomica. Che tale ordigno sia destinato ad essere gettato su Tel Aviv, non lo afferma la propaganda “sionista”: lo proclamano, menandone vanto, gli stessi dirigenti di Teheran.
Ciò malgrado, “La Repubblica” (chissà se Alain Elkann le dà ogni tanto un’occhiata) si domanda – con il classico sdegno dei benpensanti – che cosa succederebbe se un ricercatore italiano o francese venisse ucciso nel proprio Paese. “Comparatio claudicat”, come si dice nel latino ecclesiastico.
Nessuno scienziato europeo predispone degli strumenti bellici con lo scopo di cancellare un’altra nazione dalla faccia della terra. Ciò non significa che la decisione presa da Netanyau (si tratta infatti di una materia rimessa alla competenza esclusiva del Primo Ministro) sia giusta.
Non si può tuttavia applicare a questo riguardo il criterio che vale in tempo di pace, e soprattutto laddove non è in questione la sopravvivenza di un intero Paese. Si tratta infatti di un criterio che non vale nelle situazioni di guerra. L’unico metro valido, in tal caso, consiste nella adeguatezza, nella proporzione, tra mezzi impiegati e gli scopi che si perseguono.
Se dunque l’uccisione del fisico iraniano è servita per allontanare la minaccia dell’uso della bomba atomica contro Israele, si tratta di una scelta giusta. Per compiere una simile valutazione, occorre però disporre di informazioni cui il pubblico non può accedere. Non vi può accedere d’altronde neanche il Parlamento israeliano, bensì soltanto una cerchia ristretta di persone. Le quali comunque non sono guidate nelle loro decisioni dai sentimenti – ed in particolare dai risentimenti – ma soltanto dall’analisi della situazione. Che è – non lo si dimentichi – una situazione di guerra. Dalla quale noi europei occidentali siamo fuori fin dal 1945, potendo per giunta rimettere ad altri le scelte inerenti alla nostra sicurezza, riservandoci tuttavia di criticarle quando non le condividiamo. Senza però farci carico dei sacrifici necessari per difenderci.
Ora, però, siamo stati coinvolti in una situazione di guerra, nella forma dell’epidemia, e scopriamo che non siamo in grado neanche di valutare adeguatamente la condizione in cui ci siamo trovati. Per cui si impone chi è capace di sfruttarla per realizzare i propri disegni. Alludiamo a Conte e al suo partito, che prescinde dalle mediazioni interclassiste degli ex comunisti, e persegue il disegno di una società pauperistica. Che a sua volta comporta la sistematica distruzione del cosiddetto “ceto medio”. Cominciando dai ristoratori e dai baristi, per proseguire con i professionisti e con le “partite IVA” cui verranno prelevati forzosamente i soldi dai conti in banca, altrimenti non si può più pagare lo stipendio ai dipendenti pubblici. I quali – non a caso – costituiscono la base politica e sociale del Governo Conte. I carabinieri e gli agenti di polizia sono i nuovi templari.
Nella Polonia comunista, la paga di un agente di polizia era cinque volte maggiore di quella di un operaio. Da noi, andando avanti di questo passo, non ci saranno più gli operai.
I signori del “Nazareno” possono soltanto piangere sulla sorte dei ceti sacrificati dai loro alleati “pentastellati”, ma non possono fare assolutamente nulla per salvarli.
Zingaretti disponeva in realtà di uno strumento, se avesse voluto assumere il controllo del Governo: andare al voto dopo la caduta di Salvini, ma non lo ha usato perché i suoi seguaci temevano di perdere il seggio. In tempo di guerra non si deve avere paura di perdere la vita.
Non c’è posto dunque per chi ha paura di perdere lo stipendio di deputato. Si tratta dunque di persone non adeguate per fronteggiare la situazione che stiamo vivendo. Lo prova la loro insistenza nella campagna per Regeni. Nessuno, certamente, può approvare i metodi usati dalla polizia politica dell’Egitto. Che però non è né migliore né peggiore di tutte le altre analoghe istituzioni del “terzo mondo”.
Su questa vicenda, è comunque lecito esprimere alcune obiezioni. Quando Regeni sparì, la radio italiana diffuse la notizia immediatamente. Di un altro italiano, rapito in Africa dagli islamisti, si è saputo solo quando costoro hanno annunciato di averlo sequestrato. Questo diverso trattamento dimostra che Regeni godeva di una protezione particolare, in quanto verosimilmente incaricato di una missione da parte delle nostre autorità. Le quali notoriamente appoggiano l’opposizione egiziana, cioè i “fratelli musulmani”. Si tratta di una scelta di principio, ma quando la si compie occorre sapere quali possono essere le conseguenze. Il Governo le conosceva. Bisogna vedere se Regeni era stato messo al corrente, o se invece sia stato mandato allo sbaraglio senza sapere a che cosa andava incontro. Noi propendiamo per questa ultima ipotesi: ce lo fa pensare il fatto che le autorità italiane si sentono responsabili per quanto gli è accaduto.
Le altre due notizie confermano il dilettantismo che caratterizza la nostra politica estera.
Una nave italiana, convertibile in unità militare, è stata venduta dall’armatore all’Iran, che l’ha trasformata in una porta elicotteri, usata dai miliziani. Si tratta di un bene per cui vige l’embargo. Il Ministero degli Esteri non ha nulla da obiettare? Si può naturalmente dissentire dall’embargo, ma in questo caso lo si deve dire apertamente, e non si fa finta di aderirvi. In questo caso, si finisce per essere considerati degli alleati infidi. Lo siamo sempre stati. Nel 1914, avremmo dovuto entrare in guerra a fianco dell’Austria, in base alla “Triplice” del 1882, ma facemmo l’esatto contrario.
L’Otto Settembre, l’Italia rovesciò le alleanze. Durante la “guerra fredda”, ottenevamo sconti sulle forniture di gas e petrolio dalla Russia rivelando ai sovietici i segreti militari della NATO. Grazie al basso prezzo della benzina, la Democrazia Cristiana si manteneva al potere, naturalmente nel nome dell’anticomunismo.
Ora risulta che un terrorista islamico tunisino, neanche residente in Italia, percepiva il “reddito di cittadinanza”, destinato a sostenere i nostri connazionali indigenti.
A Palazzo Chigi ci si compiace tanto dei soldi incassati dall’Iran quanto del riguardo che ci usano gli islamisti, che non compiono attentati in Italia, ma usano il nostro territorio per andare a compierli altrove. Intanto, però, c’è chi sa fare la guerra, e di questo passo potrebbe anche vincerla.
Noi, però, ci lamentiamo per la morte di un italiano che vi è stato coinvolto.
Il nostro Paese è “neutrale”, Regeni non lo era. E ne ha pagato le conseguenze.