Eugenio Scalfari si ostina ad equiparare Draghi e Conte: è come se dicesse di essere ad tempo tifoso della Roma e della Lazio.
Nel caso specifico, non può valere il verdiano "questo e quello per me pari sono": l'Italia deve decidere se sta con l'Occidente o con la Cina, se intende essere un Paese dell'Europa o del Terzomondo.
In attesa che qualcuno chiarisca le idee, alquanto confuse, del quasi centenario "fondatore", cade - dopo Arcuri - un altro importante esponente del "partito cinese". Si tratta di Zingaretti. A parte ogni considerazione sull'infima statura intellettuale di questo odontotecnico chiamato a succedere ad un letterato del livello di Palmiro Togliatti, la sua gestione del partito è risultata fallimentare sul piano politico.
I comunisti cominciarono ad emanciparsi - prima con la velocità di un ghiacciaio, poi via via sempre più rapidamente - dall'influenza ideologica della Unione Sovietica fin dalla morte di Stalin. Il punto di non ritorno non venne però raggiunto sotto la segreteria di Berlinguer, il quale anzi mantenne tutte le ambiguità di Togliatti, bensì soltanto dopo la caduta del Muro, anche se un ampio settore del partito mantenne in seguito dei rapporti con soggetti non occidentali, in particolare con Cuba.
Zingaretti, avendo identificato stolidamente la causa dei democratici con quella di Conte e dei "pentastellati", ha percorso a ritroso tutto il cammino compiuto, nel corso di decenni di storia, per sottrarsi all'influenza esercitata da culture e politiche di matrice europea. Questa linea, non essendo il segretario assolutamente in grado di tracciarne una, era stata decisa da Bettini, senza che su di essa potessero influire gli organi a ciò preposti in base allo statuto, nè tanto meno un congresso che Zingaretti - temendo di essere messo in minoranza - ha sempre rifiutato di convocare. Ora non c'è più tempo per rifondare il partito. Da una parte, esiste il Governo di Draghi, e dall'altra parte c'è una serie di comitati elettorali, cittadini e regionali, diffusi in modo discontinuo sul territorio, che ora trovano nel Presidente del Consiglio il proprio comune riferimento.
Al Nazareno, si potrà stabilire tutt'al più un piccolo ufficio di collegamento, una struttura molto leggera che operi in stretto collegamento con Palazzo Chigi. Più di questo, nella situazione attuale, non si può neanche immaginare.
Quanto alla federazione di Imperia, nessun segretario nazionale - a partire da Berlinguer - ha voluto commissariarla. Tale provvedimento sarebbe stato assolutamente necessario, in considerazione delle scelte compiute a livello locale, del tutto incompatibili con l'indirizzo del partito. Il punto di riferimento dei nostri dirigenti locali era - e rimane - la Serbia, cioè lo Stato più vincolato con la Cina di tutta l'Europa. La federazione ha però virtualmente cessato di funzionare. Noi diciamo per fortuna.
Quanto a Paolo Celi, la sua "associazione" perde - dopo Conte - Benotti ed Arcuri, un altro prezioso alleato a Roma, disposto ad appoggiare le trame ordite sui due lati del nostro confine occidentale. Le rimangono dei contatti oltre il Tevere, garantiti dalle manovre di Salvatore Izzo. Il noto giornalista opera quale "longa manus" di Conte in Vaticano, e Celi svolge lo stesso ruolo oltre il confine francese.
L'incontro tra Draghi ed il cardinale Parolin ha dimostrato un atteggiamento di grande apertura verso il nuovo Governo, al quale però Celi e la sua "associazione" si oppongono.
Auspichiamo dunque che la preziosa e lungimirante azione svolta dalla Segreteria di Stato risulti coerente con delle sue premesse, quanto mai positive.