Maurizio Molinari, nel suo editoriale della domenica su "La Repubblica", prende le mosse da una constatazione certamente condivisibile:
Maurizio Molinari, nel suo editoriale della domenica su "La Repubblica", prende le mosse da una constatazione certamente condivisibile: "affermatosi in Europa nell'Ottocento con i processi di unificazione nazionale e uscito vincitore nel Novecento dal confronto con imperi e totalitarismi, lo Stato nazionale è stato investito dall'inizio di questo secolo da un crescente indebolimento per la minifesta incapacità di garantire ai propri cittadini protezione e prosperità a causa dell'impatto di fenomeni globali come migrazioni di massa, competizione nelle manifatture e corruzione".
L'autore sussume tuttavia un dato fondamentale: nel processo di costruzione degli Stati nazionali si è manifestato e realizzato l'ideale democratico - essendo essi fondati sulla volontà dei popoli - in contrapposizione al principio di legittimità, sul quale erano viceversa basati gli imperi. Soltanto in seguito, cioè dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati nazionali si sono dotati del "welfare", cioè di un sistema di sicurezza sociale.
Nei prossimi giorni, con l'imminente nuova chiusura, l'Italia entrerà in una crisi che in prospettiva potrà mettere in forse la stessa sopravvivenza dello Stato nazionale. Ciò significa che esso si mantiene in vita esclusivamente in base a fattori economici, avendo perduto tutte quelle motivazioni ideologiche da cui venne reso possibile il suo processo di formazione, motivando in seguito i cittadini in prove decisive e difficili: i nostri nonni, chiamati a combattere nella prima guerra mondiale, non sapevano nemmeno che cosa fosse il "welfare", ma ugualmente si identificarono nella causa della nazione.
Molinari ritene - a nostro avviso con ragione - che la nostra generazione, qualora venissero messe in dubbio le prestazioni previdenziali e sanitarie fino ad ora garantite, non soltanto rifiuterebbe di difendere lo Stato dai nemici esterni, ma si dedicherebbe addirittura a demolirlo. Questo precisamente egli afferma quando scrive che "la possibilità di risollevare legittimità e prestigio degli Stati nazionali si gioca ora sul terreno drammatico della pandemia. Ovvero, se il leader UE ed Usa riusciranno a battere il 'covid 19' ed a risollevare la crescita, il risultato sarà il riscatto dello Stato nazionale". Se invece la crisi causata dall'epidemia risulterà irreversibile, crollerà la nuova linea del Piave, o della Marna, ed il nemico dilagherà, distruggendo lo Stato nazionale. Posto che la tenuta della tenuta delle nostre difese dipende in sostanza dalla sopravvivenza di un benessere collettivo già traballante, che cosa si annunzia una volta consumato il crollo dello Stato nazionale? Molinari non si pone questa domanda, ma quando rileva che questo Stato "è uscito vincitore dal confronto con imperi e totalitarismi", egli identifica il suo fondamento e la sua ispirazione nell'ideologia liberale. Anch'essa, però, può essere travolta dalla stessa crisi che ha già causato la fine del fascismo e del comunismo. Se infatti è vero che il liberalismo non è totalitario nei metodi - e questo gli ha permesso di sopravvivere più a lungo - risulta altrettanto vero che esso è comunque totalitario nei fini, in quanto mirava in origine - come le altre ideologie - ad una "reductio ad unum" del mondo. La crisi del liberalismo priverebbe dunque gli Stati nazionali del loro ultimo fondamento ideologico, venendo meno la meta cui tendere, la giustificazione stessa del loro potere.
Possiamo quindi concludere che il venir meno del "welfare" costituirebbe soltanto la causa occasionale del tracollo dello Stato nazionale, che verrebbe sostituito da altre aggregazioni, fondate sulle identità comuni: se prevarrà quella religiosa, vedremo il ritorno a qualcosa di simile al Sacro Romano Impero, se viceversa risulterà più forte quella regionale, assisteremo al ritorno dei cosiddetti "antichi stati", sacrificati nel processo di costruzione di quelli nazionali. Può anche darsi che si dia una convivenza, anzi una conciliazione di queste due tendenze, tanto più che ormai da tempo gli Stati nazionali si sono rivelati troppo piccoli per governare l'economia, e troppo estesi per governare il territorio. Verrebbe meno comunque l'ispirazione rappresentata fino ad ora dal liberalismo: il motivo di ciò viene indicato dallo stesso Molinari, quando conclude che il popolo si riconosce ormai in esso solo in quanto gli vengono ancora garantite le prestazioni sociali. La cultura politica liberale risulta comunque esaurita. Per rendersene conto, basta leggere "La Repubblica" dove Scalfari si dedica ad esaltare il pensiero e l'azione del Papa con più zelo di quello dimostrato dal suo collega de "L'Osservatore Romano". Tale essendo la situazione, non ci sarà neanche bisogno - per assistere alla fine del liberalismo - del dilagare, peraltro inarrestabile, dell'epidemia. Il morbo offriva l'occasione per ritrovare i motivi di una solidarietà collettiva, che però non si può fondare soltanto sulle norme giuridiche, nè tanto meno sul timore di una repressione. Se la gente non crede più nello Stato, non bastano per salvarlo nè i grandi economisti, nè i "grands commis", nè i grandi poliziotti. Cioè nè Draghi, nè la Lamorgese, nè Gabrielli. Questi personaggi devono motivare la gente. Il che - essendo privi di strumenti politici - risulta molto difficile.