La ricerca storiografica dovrebbe essere considerata come l'espressione di una scienza.
Questo, però, non vale nelle situazioni di conflitto, dove i suoi risultati possono essere utilizzati per affermare delle istanze politiche. Che d'altronde condizionano anche altre discipline, e in primo luogo quelle linguistiche. Laddove la contrapposizione giunge all'estremo come avviene nel Medio Oriente - perfino l'archeologia viene assoggettata alla ricerca degli argomenti che possano dare ragione all'una o all'altra delle parti in causa.
Nei Balcani, il carattere irriducibile di tutte le dispute territoriali - che hanno coinvolto anche l'Italia - è determinato dalla pretesa, avanzata dai vari Stati, di fare coincidere i rispettivi confini con la loro massima espansione territoriale registrata nella storia del passato. Che ha quasi sempre lasciato in eredità la presenza di comunità appartenenti ad una particolare espressione linguistica. Il veneto era parlato - per dare un esempio - nelle isole joniche e della Grecia, rimaste sotto il dominio di San Marco fino al 1797, quando Napoleone cedette tutto il territorio della repubblica all'Austria. L'Italia, considerandosi erede di Venezia, arrivò comunque ad annettere Zara.
La pratica sciagurata della "pulizia etnica" - che mette le popolazioni nella tragica alternativa tra l'assimilazione forzata, l'espatrio o lo sterminio - costituisce una conseguenza estrema di tali situazioni. Da questo punto di vista le genti del confine occidentale dell'Italia, cui apparteniamo anche noi - hanno avuto una sorte migliore rispetto a quelle del confine orientale. Il tracciato delle frontiere politiche, risultando in sostanza una convenzione, è stato sempre vissuto dai nostri antenati in modo non traumatico. Nessuna sovranità, infatti, poteva eliminare nè il bilinguismo, inteso come convivenza di diverse espressioni letterarie, nè tanto meno l'uso corrente degli idiomi regionali. Un esempio è fornito dalla Valle d'Aosta, dove il francese è riconosciuto come lingua ufficiale, ma l'adozione come tale dell'italiano da parte del Piemonte - ultimo tra gli "antichi stati" regionali - risale ad Emanuele Filiberto, regnante nel sedicesimo secolo. Sulla scelta compiuta da questo sovrano influì - forse più che la propensione dei Savoia a scegliere l'espansione dei loro domini ad oriente delle Alpi - il fatto che il re vinse per conto dell'imperatore Carlo V la battaglia di San Quintino, combattuta precisamente contro i francesi. I suoi territori situati ad occidente delle Alpi - cioè la Savoia, che dava il nome alla Casa reale - rimasero tuttavia francofoni.
La "Vallée" parlava invece provenzale, cioè un idioma avversato e proibito dal Regno di Francia fin dalla crociata del tredicesimo secolo contro gli albigesi. Ridotto il provenzale ad un uso vernacolare, il clero valdostano - cioè i famosi canonici di Sant'Orso, cultori e diffusori di tutte le scienze - continuarono ad usare ed a preservare il francese. Quanto al provenzale, esso sopravvisse dopo il Trattato di Meaux del 1229 - con cui venne affermato definitivamente il dominio di Parigi sulla Francia meridionale - proporzionalmente di più sul versante piemontese delle Alpi. Ed è proprio presso il Santuario del Comboscuro, nelle valli del cuneese, che si svolge ogni anno, l'otto settembre, il più importante raduno dei cultori della "lingua d'oc".
A Nizza, i Savoia imposero l'uso dell'Italiano, come testimoniano le lapidi apposte sotto il loro governo. Ce n'è una nel Santuario di Laghet, ed un'altra presso il "Trofeo delle Alpi" della Turbie. Da questa parte del confine, il francese rimase come seconda lingua letteraria. Lo testimonia il sanremese Italo Calvino parlando di suo padre, ed era bilingue - fin da prima di rifugiarsi oltre confine sotto il fascismo - anche il nostro nonno materno. Nel 1945, le truppe della Francia libera debordarono in territorio italiano, e da quel momento iniziò la contesa sul tracciato del confine, conclusa soltanto con la firma del trattato di pace, avvenuta a Parigi nel 1947.
Uno studio diffuso recentemente su internet rievoca le vicende di quel tempo, nel quale si costituì - tanto in Piemonte quanto in Liguria - un movimento favorevole all'annessione alla Francia. Tale obiettivo venne frustrato per via della protezione americana sull'Italia. Gli Stati Uniti preferivano estendere il loro dominio praticamente diretto anzichè accontentare  un alleato scomodo, quale il generale De Gaulle.
La Resistenza italiana, nutrita di memorie risorgimentali, si schierò in prevalenza dalla parte di Roma. Non mancarono, tuttavia, le eccezioni. Tra esse, faceva spicco una figura di studioso ed uomo politico che abbiamo avuto la ventura di conoscere, ascoltando le sue memorie e le sue ragioni: quella del professor Adalgiso Boeri, originario di Badalucco e residente a Riva Ligure, nostro vice preside al liceo "Cassini" di Sanremo. Prima di morire, egli tentò anche di fare risorgere il movimento politico che aveva animato nell'immediato dopoguerra, ma i tempi non erano ancora maturi. Potemmo comunque conoscere i suoi argomenti, che esponeva riconoscendo gli errori compiuti nel tentare di affermarli, ma senza mai ritrattarli. Boeri amava ricordare che anche la geografia fisica, facendo convergere le nostre valli su Nizza, doveva indurci a costituire una entità transfrontaliera, ispirata dalla Contea di Tenda, formatasi con la dissoluzione del Regno Longobardo di Arduino. Nel quale il Carducci, infatuato dalla italianità, vide addirittura un antesignano della unità nazionale.
L'errore compiuto finita la guerra consistette nel porre la nostra gente nell'alternativa tra essere italiana o francese. Quale che fosse la scelta, ne sarebbe derivata una violenza sulla sua identità: che è precisamente una entità di transizione. De Gaulle, d'altronde, era troppo nazionalista per comprendere questa realtà. Se la si fosse tenuta in considerazione, la stessa Nizza - senza divenire italiana, quale d'altronde non è mai stata - avrebbe voltato le spalle alla propria asserita "francité". Che è ancora più sfumata di quella della Provenza, dato che nel capoluogo delle Alpi Marittime non si parla la "lingua d'oc", bensì il ligure. Garibaldi pronunziò in questa lingua la celebre frase "Bixio, qui si fa l'Italia o si muore": quando affermiamo di essere italiani, lo stesso modo di esprimerlo ci fa cadere in contraddizione.
Oggi il discorso riguardante la cancellazione del confine, reso comunque sempre più attuale dal processo di integrazione dell'Europa, riprende forza con l'affermazione delle identità regionali. Questa è la prospettiva su cui dobbiamo lavorare.  

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Mario Castellano  15/09/2021
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