Un caro amico, di professione avvocato, impegnato a lungo quale amministratore pubblico e militante in politica, si è rivolto a noi per segnalare con preoccupazione la tendenza, assunta dal nostro sistema informativo in merito alla epidemia.
Allarma soprattutto il fatto che non venga concesso nessuno spazio al dissenso rispetto al pensiero scientifico ufficiale. Chi non è d'accordo, viene dunque demonizzato dalla propaganda, e additato all'opinione pubblica come un criminale, malgrado non si possano tacciare come tali soltanto coloro che violano la legge, in particolare quella penale.
Il rifiuto di vaccinarsi, salvo nel caso delle categorie per cui tale trattamento sanitario viene prescritto dall'ordinamento giuridico, non configura neanche una contravvenzione amministrativa, cui si applica la sanzione corrispondente. La vaccinazione costituisce soltanto, in base allo "jus conditum", esclusivamente un onere, imposto a chi svolge determinate attività, ovvero a chi vuole avvalersi di alcuni servizi pubblici. Ricordiamo, a tale riguardo, che l'onere costituisce un istituto giuridico ben distinto dall'obbligo. Abbiamo già dichiarato pubblicamente che all'onere di vaccinarsi adempiremo immediatamente se e quando esso verrà introdotto per legge. Fino ad allora, non violiamo nessuna norma positiva.
La propaganda ufficiale presenta tuttavia chi non è vaccinato come un cittadino renitente ad adempiere ai propri doveri, soprattutto come un soggetto che deliberatamente - e sottolineo la parola "deliberatamente" - attenta alla salute pubblica, rendendosi responsabile della malattia, financo della morte di altre persone. Se il fatto di non vaccinarsi produce veramente tali effetti, ci domandiamo per quale motivo si eviti ancora di rendere obbligatorio tale trattamento sanitario.
La nostra situazione ricorda sinistramente quella propria dei regimi totalitari, dove la propaganda presenta l'adesione ad una particolare opzione politica come un dovere civico, ed esorta a compiere tutti gli atti che esprimono un consenso collettivo obbligatorio. Al tempo del fascismo, non si era resa obbligatoria l'iscrizione al partito unico, che però costituiva un onere cui si doveva adempiere per svolgere moltissime attività. Una volta, ci capitò di ricordare con un vecchio antifascista il rifiuto di aderire al regime da parte di un noto dirigente politico del dopoguerra. L'amico ci rispose che costui era un grande proprietario terriero, in grado di vivere di rendita in attesa della caduta di Mussolini. Gli altri, dovevano adattarsi, accettare una condizione di emarginazione, oppure andare in esilio. Abbiamo l'impressione che si voglia arrivare di nuovo a questo punto. 
Se anche qualcuno potrà sopravvivere nelle pieghe delle norme già emanate o in via di emanazione, verrà considerato comunque un reprobo. Non c'è il partito unico, ma esiste il pensiero unico e ufficiale, che configura un totalitarismo non dichiarato. Lo rivela il modo stesso in cui ci vengono annunziate le nuove misure. Più che giustificarle spiegando le necessità profilattiche - autentiche o asserite - le si presenta come volte a combattere un nemico. Che a sua volta non viene identificato nella malattia - cioè in una situazione oggettiva - bensì come un insieme di persone. Questo nemico si qualifica però come interno, e questo configura una situazione - quanto meno psicologica - di guerra civile. Se qualcuno ne trae le conseguenze scegliendo di praticare la violenza - lo ripetiamo ancora una volta - la responsabilità giuridica e morale sarà soltanto sua, ma la responsabilità politica verrà condivisa con chi ci governa.


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Mario Castellano  08/12/2021
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