Le tribù vinte cantano e ballano: ...
Le tribù vinte cantano e ballano: il proverbio, di origine orientale, riflette il rapporto tra gli imperi e le popolazioni assoggettate, che si dedicano alla musica e alla danza sia per intrattenere e compiacere i loro padroni, sia per mantenere – nei margini loro concessi dal chi le domina – la propria identità.
Se applichiamo questa espressione della saggezza popolare alle vicende nostro Paese, vediamo come – dopo la costituzione dello Stato unitario – ai Napoletani (termine spregiativo, usato a partire da Massimo d’Azeglio per designare i Meridionali) – fosse attribuito il compito di allietare con il proprio folclore la compagine nazionale.
La quale viveva uno strano paradosso: se nei Paesi stranieri si assumevano certe espressioni della cultura popolare tipiche del Sud come rappresentative della Italia nel suo insieme, si rafforzava parallelamente una indiscussa egemonia del Settentrione, che considerava il Meridione come una riserva di manodopera a buon mercato, da usare in funzione delle proprie esigenze.
Questa situazione venne mascherata dalla retorica nazionalista del Fascismo, ed in seguito aggravata dal modello di sviluppo adottato dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Il regime democristiano si fondava su di una alleanza diseguale tra la imprenditoria del cosiddetto Triangolo Industriale e la borghesia parassitaria del Meridione: dove ai vecchi latifondisti si era sostituito un ceto mafioso che fingeva di essere anche esso imprenditoriale per beneficiare di contributi pubblici destinati a promuovere insediamenti manifatturieri effimeri, costituiti sovente soltanto per ottenere finanziamenti.
Se questa fu la responsabilità storica del Partito di maggioranza, ci fu però anche un fallimento dei Comunisti.
Il cui stesso simbolo – la falce e il martello – significava la alleanza tra il proletariato agricolo e quello industriale, ma la organizzazione sindacale del bracciantato, che pure aveva espresso delle grandi mobilitazioni e soprattutto una classe politica di altissimo livello – pensiamo alla grande figura di Giuseppe Di Vittorio – non riuscì tuttavia a compiere la missione storica che allora si chiamava – con una formula retorica, ma piena di significati emotivi e culturali – del riscatto delle plebi.
Che si sarebbe potuta ottenere soltanto mettendo in discussione lo stesso impianto dello Stato unitario, di cui però i compagni di Togliatti non seppero mai riconsiderare il dogma.
Per riscattare il Meridione sarebbe stato infatti necessario invertire il rapporto tra Nord e Sud quale era stato concepito, a partire da Cavour, da tutti i nostri governanti, con una continuità che prescindeva dalla successione tra liberali, fascisti e postfascisti.
Il Meridione avrebbe dovuto essere inserito nel processo di liberazione dei popoli soggetti al colonialismo.
Se il cosiddetto brigantaggio aveva sbagliato guardando al passato, cioè al mantenimento della Monarchia borbonica, occorreva proprio per questo elaborare nuovi strumenti politici e porsi diversi obiettivi: in primo luogo, la trasformazione in senso federale dello Stato.
Il Partito Comunista scelse invece di difendere ad oltranza la Costituzione, ritenendola una difesa da ogni regressione autoritaria, ma non considerando come il modello dello Stato unitario – semplicemente transitato dalla Monarchia sabauda alla Repubblica mazziniana – costituisse la prima causa di tale pericolo, ed insieme della subordinazione e del sottosviluppo del Meridione.
Che avrebbe potuto rifiorire soltanto qualora un effettivo decentramento avesse permesso di destinare alla agricoltura le risorse necessarie per la sua rinascita.
Se invece si puntava tutto sulle manifatture, era fatale che si investisse laddove la vicinanza con il Centro Europa e la esistenza delle infrastrutture necessarie permettevano di fare arrivare la materia prima e di esportare il prodotto finito.
Il risultato fu che il Meridione non ebbe neanche i porti, gli aeroporti, le ferrovie e le strade.
Salvo quelle che portavano altrove una popolazione costretta ad emigrare.
I sindacalisti dei braccianti divennero sindacalisti dei lavoratori industriali, ma le lotte sociali in cui essi si impegnavano al Nord si ponevano degli obiettivi che con la causa del Meridione non avevano nulla a che fare.
Ora la Meloni va alla Scala ad assistere alla Prima, e la borghesia imprenditrice lombarda la accoglie prosternandosi ai suoi piedi.
Il Settentrione si umilia davanti al potere centralistico romano, senza però che ciò comporti una nemesi storica del Meridione.
A Milano si canta e si balla in onore dei padroni dello Stato perché ormai soltanto il Governo può tenere a galla delle imprese prive tanto del mercato interno come di quello internazionale.
Un tempo si diceva che il Nord e il Sud erano uniti nella lotta: ora sono uniti nella indigenza e nella impotenza.
La Meloni può dunque scegliere tra la Prima della Scala ed il Festival di Fuorigrotta, certa che ovunque vada si canterà e si ballerà in suo onore, competendo in una sorta di concorso di bellezza volto ad accaparrarsi i pochi finanziamenti che le Autorità nazionali possono ancora elargire.
I Leghisti si lamentavano un tempo di Roma ladrona.
Oggi, tra quanti dimostrano la loro piaggeria alla Meloni, troviamo anche Fontana.
Questa situazione durerà fino a quando passeremo dal preservare la nostra identità sul terreno metapolitico della cultura ad affermare i nostri rispettivi diritti sul piano politico.
Ciò significa però, in una sola parola, autodeterminazione.

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Mario Castellano  23/12/2022
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