Il Tour de France del 2024 partirà da Torino, e quindi – prima di passare le Alpi – farà tappa a Bologna e a Firenze.
Ciò, per chi sia profano in materia sportiva, non fa notizia.
Informiamo dunque costoro che ogni anno il Giro di Francia compie per tradizione un cosiddetto sconfinamento, includendo un arrivo di tappa in uno dei Paesi vicini.
A Torino, complice la possibilità inserire nel percorso i passi alpini, è toccato sovente questo onore: una volta, ciò permise a Defilippis, il cosiddetto enfant du pays, di tagliare per primo il traguardo tra il tripudio dei suoi concittadini.
Ci fu un anno in cui il Tour – attraversando il Belgio – si spinse fino in Olanda.
I dirigenti della Gazzetta dello Sport hanno voluto strafare, trasportando il Giro d’Italia addirittura in Israele: speriamo che le preghiere pronunziate in Terrasanta – avendo notoriamente maggior valore – siano valse ad illuminarli.
Questa presa di posizione in favore del movimento sionista, pesantemente criticata dai fautori nostrani dei Palestinesi, ha probabilmente contribuito alla conversione all’Islam del già Presidente di Giuria Luigi Ivo Bensa, risentito per la propria emarginazione dalla dirigenza sportiva.
Torniamo però alla inopinata trasformazione del Tour in un mezzo Giro d’Italia, che alle orecchie dei dirigenti del Comitato Olimpico e della Federazione suona probabilmente – se non come un tentativo di annessione - quanto meno quale una pesante ingerenza nei nostri affari interni.
Tanto i capi del Foro Italico quanto quelli della già Unione Velocipedistica Italiana affondano notoriamente le loro radici ideologiche nel neofascismo.
Di Rocco è un dichiarato “nostalgico”, e Malagò esordì giovanissimo come militante della Sezione dei Parioli del Movimento Sociale.
In seguito, nel suo ondivago percorso, divenne renziano, ma ora l’avvento della Meloni deve avere destato in lui il richiamo della foresta: mentre la Presidente del Consiglio fu a suo tempo l’unica ad opporsi alla stipula del Trattato del Quirinale, dobbiamo supporre che l’erede di Onesti non gradisca il pascolo abusivo praticato sul suolo italico dai cugini transalpini.
Risulta comunque facile cogliere il significato politico del gesto compiuto dalla Federazione Francese, o piuttosto dalla Società organizzatrice del Tour, che a Parigi gode non soltanto di un immenso prestigio, ma anche di un potere illimitato, tale de rendere la cosiddetta “carovana” simile ad una entità extraterritoriale ambulante, ovunque accolta con gli onori riservati al Capo dello Stato.
La provincia francese, notoriamente, è fatta di tre cose: la noia, immortalata in innumerevoli romanzi e pellicole, la gastronomia e – per l’appunto – il Tour: che giunge annualmente a scuoterla dal suo torpore.
La macchia organizzativa del Giro di Francia venne forgiata nel dopoguerra da una coppia di soci composta dall’israelita Levinas e dal gentile Godet: i quali – appartata ogni disputa di carattere religioso – la forgiarono come una potente macchina da guerra.
Che ora muove, seguendo le orme di Carlo Magno, verso il suolo dell’Italia, spingendosi dapprima fino in fondo alla Pianura padana, per poi valicare addirittura l’Appennino.
Risulta chiaro come la sfera di influenza francese, impiegando come avanguardia la manifestazione sportiva più nota nel mondo, intenda proiettarsi nella Bassa Pianura Padana e sul versante tirrenico della Penisola.
Rimane fuori Milano, su cui Parigi riconosce evidentemente – nell’ambito di un disegno spartitorio – un parallelo droit de regard austro – tedesco.
Le Autorità transalpine si mettono così al riparo da ogni problema con gli Stati terzi.
La metapolitica precede sempre la politica, e ne traccia la strada.
Quanti tra gli Italiani si sentono terzomondisti sono naturalmente portati ad identificarsi con la Meloni, mentre quelli che si considerano europei si aggrappano alle Alpi.
Come cantava il Manzoni riferendosi al nostro Paese, “Quante volte dall’Alpe spiasti l’apparir di un amico stendardo”.
Ora tale stendardo assume i colori delle maglie indossate dai ciclisti.
Immaginiamo il giubilo dei tifosi, assiepati lungo le strade.
Per quanto riguarda il seguito, vale quanto diceva il Generale De Gaulle: “L’Intendence suivra”.
Post Scriptum. Una autorevole rivista economica europea, pubblicando le immagini delle Capitali del Continente, ha collocato quella dell’Italia a Firenze.
Esiste un precedente storico, datato tra il 1865 ed il 1870, quando Minghetti – stipulando la cosiddetta “Convenzione di Settembre” - fece credere a Napoleone III di avere rinunziato a Roma.
Ora qualcuno si propone evidentemente di restituirla al Papa.