Mentre in tutta l’Europa ci si prepara ad una nuova ondata di violenza islamista, molti Stati – tra cui l’Italia - chiudono i confini.
Mentre in tutta l’Europa ci si prepara ad una nuova ondata di violenza islamista, molti Stati – tra cui l’Italia - chiudono i confini.
Noi dubitiamo che questa misura risulti efficace nel prevenire il terrorismo: per compiere degli attentati, bastano e avanzano gli elementi che nel corso degli anni sono già stati infiltrati.
Le restrizioni all’attraversamento delle frontiere possono rallentare il flusso dei disperati che alimentano l’emigrazione cosiddetta economica, non quello dei violenti: i quali contano su di una rete ben collaudata di fiancheggiatori e di favoreggiatori.
Costoro, una volta che il nuovo arrivato si è qualificato, indicando le proprie referenze, hanno l’obbligo di aiutarlo a passare tutti i confini: la trafila islamista opera, infatti, come uno Stato nello Stato.
Trovandoci tempo fa a Ventimiglia, il responsabile della Moschea locale ci confidò – indicando i fedeli intenti a pregare – che non erano gli stessi di una settimana prima, e che sarebbero stati sostituiti da altri in quella successiva.
Non si trattava di nordafricani, ma di soggetti provenienti dall’Asia Centrale, cioè da quel Medio Oriente “allargato” che fornisce il nerbo degli aspiranti combattenti islamisti dislocati nell’Europa Occidentale.
Chi gode di una presentazione presso l’Autorità di fatto incaricata di vigliare sul confine, le corrisponde il dovuto, che viene suddiviso tra il Governo e Paese cui essa appartiene, i “passeurs” incaricati del transito verso lo Francia ed il compenso personale dovuto a questa sorta di Console dell’Internazionale islamista.
I disperati privi delle necessarie entrature salgono sui treni per Nizza, e vengono inesorabilmente fermati e respinti nella stazione di Mentone – Garavan da giganteschi agenti delle “Compagnie repubblicane di Sicurezza”: i quali – vuoi per non causare ulteriori disagi ai passeggeri occidentali, vuoi per essere più sicuri del risultato – fanno scendere tutti quanti palesano un aspetto esotico.
Se si trovasse a bordo l’Ambasciatore del Congo, verrebbe sottoposto anch’egli a tale prassi umiliante.
Poi, verificate le sue credenziali, potrebbe naturalmente proseguire il suo viaggio, riservandosi però di provocare un incidente diplomatico.
Noi, più modestamente, abbiamo riflettuto sul fatto che anche nostra moglie avrebbe dovuto scendere dal treno.
Data la prassi instaurata a Ponte San Luigi, il filtro installato al confine di Sistiana - Fernetti e di Lazzaretto di Muggia risulta essere una conseguenza inevitabile di quanto avviene in tutto l’Occidente.
Più difficile la situazione a Gorizia, che rischia di non essere più una Città Aperta.
Ovunque, ormai, si diffonde la psicosi dell’attentato: per prevenire gli inevitabili scherzi di pessimo gusto, le Autorità della Comunità Israelitica di Roma hanno organizzato una apposita esercitazione, spiazzando i malintenzionati.
In realtà, il procurato allarme costituisce reato, ma - nella denegata ipotesi dell’instaurazione di un procedimento penale - i dirigenti del Portico di Ottavia potrebbero invocare lo stato di necessità: che nelle attuali circostanze non ha bisogno di essere provato.
La chiusura dei confini ha una efficacia soprattutto psicologica, come i razionamenti: che chiunque disponga di denaro può comodamente aggirare, mentre altri vi si conformano per dare prova di disciplina e di patriottismo.
Durante l’epidemia avvenne qualcosa di simile.
Fummo allora tra i pochi a denunziare che si trattava di un pretesto per inscenare una prova generale della futura guerra.
Inutile aggiungere che indovinammo: “Pensala al peggio – dice il proverbio – e la indovinerai”.
Il momento attuale spinge verso l’identitarismo, ma a quale soggetto lo si deve riferire?
Chi è in grado di indicarlo, e di agire in suo nome, vince la partita, ed afferma il proprio potere.
Quanti gli si oppongono, vengono invece indicati come sabotatori, quinte colonne del nemico e traditori della Patria.
La Meloni non si lascia dunque sfuggire l’occasione per affermare il proprio potere, che si consoliderà inevitabilmente fino alla fine della guerra, iniziata nel momento in cui Hamas ha passato il confine di Gaza.
Questo evento passerà alla storia come l’equivalente dell’attentato di Sarajevo e dell’abbattimento del confine tra la Germania e la Polonia.
Entrambi questi episodi furono le cause occasionali di altrettanti scontri già decisi da tempo, così come erano già delineati gli opposti schieramenti.
Nel 1914 si affrontavano due diverse concezioni del potere, essendo fondato sul principio di legittimità quello degli Imperi, e sul principio della sovranità popolare quello delle Nazioni componenti l’Intesa.
Nel 1939, si scontrarono il fascismo e la democrazia.
Oggi il confronto è tra l’Islam e la cosiddetta Civiltà Giudaico – Cristiana.
Aveva ragione Huntington, che previde quanto si stava preparando.
Se però i Musulmani hanno una identità comune, che tende a cancellare i confini degli Stati - tanto più in quanto erano stati tracciati dal Colonialismo - dall’altro lato si allineano identità diverse.
L’abilità della Meloni è consistita nell’approfittare di una eredità storica risalente all’Ottocento, e fatta propria in seguito tanto dal Fascismo quanto dalla Repubblica.
La quale semplicemente sostituì con il riferimento a Mazzini quello a Casa Savoia.
L’inadeguatezza culturale della Sinistra la indusse a trascurare le idee di Cattaneo, la cui rivalutazione l’avrebbe portata però a rivendicare le identità regionali.
Il che, nel tempo in cui prevalevano le ideologie transnazionali, andava al di là delle sue risorse intellettuali.
La Meloni si muove dunque in continuità non solo coi protagonisti del cosiddetto Risorgimento, ma anche coi Costituenti antifascisti.
La cui memoria subisce quindi una beffarda nemesi storica.
La concezione unitaria dello Stato era stata condivisa sia da Cavour, sia da Mussolini, sia infine da De Gasperi e da Togliatti: non ci si può dunque scandalizzare se la fa propria l’attuale Presidente del Consiglio.
Non rimane dunque che partire per la guerra essendo inquadrati dietro i vessilli dell’Italia unitaria e centralista.
Il cui baricentro – questa è la novità introdotta da una dirigente che si esprime in romanesco – si sposta verso il Meridione.
Non sono d’altronde tutti provenienti dal Sud i burocrati che rappresentano lo Stato anche alle nostre latitudini?
E non hanno forse naufragato i nostri politicanti quando sono approdati a Roma, trovandosi spaesati tra le mura dei Ministeri, al punto di non trovare nemmeno un Capo di Gabinetto che fosse loro fedele?
La sola speranza risiede nel fatto che la guerra esige di valorizzare l’apporto fornito dagli alleati.
Occorre dunque fare presente ciò che siamo, anche se l’esazione del compenso, la realizzazione delle nostre aspirazioni, è rinviata inevitabilmente al futuro.
Se siamo arrivati a questo punto, lo si deve al fatto che la Sinistra italiana non è stata in grado di riferirsi ad una identità, mentre altrove ne è stata capace.
Valga l’esempio – che abbiamo più volte ricordato – della Spagna, dove le bandiere della Catalogna e del Paese Basco sono poste accanto a quella dello Stato, proprio in quanto sono considerate anch’esse nazionali.
L’incapacità di cogliere lo spirito del tempo non costituisce una novità: nel 1914, i Socialisti non capirono che l’Europa andava verso il nazionalismo.
La formula del “Né aderire, né sabotare”, scelta di fronte alla decisione dell’Intervento, fece sommare gli inconvenienti della guerra – che questa parte politica non aveva saputo impedire – e le conseguenze del suo esito, divenuto appannaggio esclusivo della parte avversa.
Dopo la Liberazione, Togliatti propose all’Italia il modello semi asiatico proposto da Stalin: che non poteva conciliarsi con la nostra appartenenza all’Occidente.
La scelta compiuta Berlinguer quando si rese conto di come la stessa causa della giustizia sociale sarebbe stata meglio tutelata stando al di qua del Muro di Berlino venne interpretata dalla sua base non come una opzione ideale, ma come la rassegnazione ad uno stato di necessità.
Non se ne trassero dunque le necessarie conseguenze.
Lo prova il fatto che la politica balcanica tanto dei Comunisti quanto dei Democristiani non venisse decisa né Roma né a Trieste, bensì sul confine occidentale: per via degli interessi commerciali di alcuni dirigenti dell’uno e dell’altro Partito.
Il conseguente errore compiuto, non solo a proposito dell’ex Jugoslavia ma anche al momento dello scoppio della guerra in Ucraina, poteva essere ancora corretto quando è iniziata quella in Medio Oriente.
Mentre però a Roma, a Milano e a Bologna si sfila dietro la bandiera palestinese – e addirittura dietro il vessillo verde dell’Islam – in quanto prevale il riflesso condizionato della affinità con tutte le cause antioccidentali, qui da noi si sceglie di stare con gli Arabi perché si sono messi al sicuro i soldi nei loro paradisi fiscali.
La logica della selvaggina torna dunque alla sua origine, alle motivazioni personali che a suo tempo l’avevano generata.
Allora, però, questa politica poteva convivere - barcamenandosi tra le dichiarazioni di anticomunismo o di eurocomunismo e la prassi affaristica corrente – con una adesione simulata agli orientamenti nazionali.
Oggi siamo invece davanti ad un conflitto in cui non si tollerano gli opportunismi, le finzioni e i doppi giochi.
Bisogna dunque decidere da che parte stare.
Il fatto che la Meloni abbia già compiuto le sue scelte non ci esime dal compiere le nostre.
Senza cadere nell’errore di chi crede che il nemico del suo nemico sia necessariamente suo amico.
Milosevic non poteva essere considerato nostro amico.
Tanto meno può esserlo Haniyeh.

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Mario Castellano  20/10/2023
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