Sarebbe troppo facile paragonare la conferenza stampa in cui la Meloni e la Alberti Casellati ...
Sarebbe troppo facile paragonare la conferenza stampa in cui la Meloni e la Alberti Casellati hanno presentato la loro riforma costituzionale con il discorso di Mussolini del 3 gennaio del 1925: in entrambi i casi, si tratta della proclamazione di un nuovo regime.
Certamente, rispetto ai tempi del Duce, si nota una maggiore sobrietà, ed i toni risultano meno drammatici.
Per giunta, la Sala Stampa di Palazzo Chigi non si può paragonare con l’aula “sorda e grigia” che il Capo del Governo avrebbe potuto ridurre a “bivacco di manipoli”.
L’unica nota che riporta alla gravità del momento è rappresentata dal principale elemento decorativo: si tratta della pittura posta alle spalle degli oratori, raffigurante delle navi in procinto di affondare.
Esattamente come la Repubblica, che la Meloni si ostina a definire “Seconda”, mentre in realtà si tratta sempre della Prima: la quale conclude ingloriosamente una lunga agonia, contraddistinta dall’accanimento terapeutico di quanti tentavano con i più diversi rimedi di tenerla in vita.
Questa vicenda si può paragonare al tentativo della quadratura del cerchio: se la Costituzione si era rivelata inadeguata, gli sforzi volti a riformarla non riuscivano a renderla più efficiente.
I tentativi di riforma urtavano infatti inevitabilmente contro il sentimento del popolo, che temeva una regressione autoritaria.
Come precisamente avvenne quando Renzi fallì dove la Meloni sta riuscendo.
Il “Rottamatore” non poté rottamare il vecchio regime in quanto si manteneva pur sempre all’interno della sua logica.
La Sorella d’Italia si pone invece nei confronti dello Stato repubblicano con l’ottica di chi lo guarda non soltanto dall’esterno, bensì con manifesta ostilità.
Se dunque è da escludere ogni restaurazione del Fascismo, non vi è però alcun dubbio sul fatto che l’obiettivo consiste nel superare il postfascismo.
Sui contenuti giuridici del progetto abbiamo già scritto.
Rimane da aggiungere una sola annotazione: le due dame che hanno congiuntamente partorito la riforma affermano ipocritamente di avere voluto salvaguardare le prerogative del Presidente della Repubblica.
Il quale è stato viceversa privato di ogni voce nel procedimento mediante il quale si costituisce il Governo.
Come ne viene ugualmente privato il Parlamento: la contestualità tra la sua elezione e quella del Presidente del Consiglio fa sì che i due organi “simul stabunt, simul cadunt”.
Con il risultato di escludere l’efficacia – se non la possibilità teorica - di un voto di sfiducia.
L’eventuale nuovo Governo dovrà infatti essere espressione della stessa maggioranza risultata dall’elezione di quello precedente.
Gli altri poteri del Capo dello Stato, vale a dire essenzialmente il rinvio alle Camere di una Legge, rimangono in vigore solo formalmente: Mattarella ha già rinunziato ad esercitarle, anche laddove l’illegittimità costituzionale risultava più manifesta.
Il Capo dello Stato non è neanche più una icona, quale fu Vittorio Emanuele III: egli si riduce ad una reliquia.
Fin qui l’unica osservazione di ordine giuridico che non avevamo ancora formulato.
Ve ne sono però altre due, di carattere politico.
La prima riguarda la considerazione in cui la Meloni – come pure la Alberti Casellati, che pure afferma di provenire, a differenza della Sorella d’Italia, da una cultura politica liberale – tiene la vicenda civile dell’Italia Italia seguita al Venticinque Luglio.
Che la Signora della Garbatella tratta – in coerenza con la sua formazione – come un’era di decadenza, alla quale occorreva che ella stessa ponesse fine per risollevare le sorti della Nazione.
La quale – secondo lei - risulta “a contrario” aver goduto di un’era felice, coincidente con il tempo trascorso dall’Unità fino appunto al fatidico 1943.
Del periodo successivo, la Meloni ricorda soltanto – con manifesto spregio - la successione dei Ministeri, che ella giudica come segno di una cronica instabilità del potere.
Questo è indubbiamente vero, ma – come ogni verità soltanto parziale – esprime una bugia.
Per ottanta anni, tre generazioni di Italiani hanno tentato di costruire una democrazia.
Se il tentativo è fallito sul piano giuridico, non si può tuttavia negare che abbia fatto crescere il Paese dal punto di vista civile, soprattutto in quanto chi è nato dopo la guerra si identifica irreversibilmente con questo ideale e con questa causa.
Per cui vi sono molti che non tollerano il ritorno all’autoritarismo, quale che ne sia il pretesto.
La valutazione che la Meloni esprime della nostra storia recente risulta analoga al modo in cui Mussolini considerava la successione dei Presidenti del Consiglio a partire dal Conte di Cavour per arrivare a Facta.
Cui egli contrapponeva la raggiunta stabilità, il consolidato equilibrio propiziato dall’affermazione del suo potere personale.
Dobbiamo dunque prepararci ad un altro Ventennio, salvo che le contingenze della politica internazionale producano una nuova riunione del Gran Consiglio.
L’altra annotazione riguarda il rapporto con i nostri alleati.
Quando la Meloni, contrapponendo l’instabilità italiana alla stabilità francese e tedesca, afferma che d’ora in avanti, grazie a lei, essi saranno contenti di vederci rappresentati in modo continuativo, la Presidente del Consiglio ha malinconicamente ragione.
Perfino quando insinua che il suo avvento al potere sia stato il frutto di una influenza esterna: o quanto meno che risulti gradito oltre i nostri confini.
La Meloni arriva quasi ad affermare che “all’estero ce la invidiano” (altro sinistro ricorso storico).
In sostanza – al netto della sua notoria ed abnorme autostima – la Sorella d’Italia dice purtroppo la verità.
L’Occidente, di fronte ad una crisi che minaccia in prospettiva la propria sopravvivenza, deve infatti assicurare la stabilità dell’immediata retrovia del fronte presidiato da Israele, dietro al quale si trova il Mediterraneo.
E dietro ancora le coste dell’Italia.
È inutile recriminare sul fatto che gli altri Paesi Occidentali “faute de mieux” si affidino ad un persona come la Meloni per presidiare questa retrovia.
Se essi non trovano nulla di meglio, è perché la Sinistra ha rinunziato a governare quando ne ha avuto l’occasione.
Le persone che rifiutano di assumere le loro responsabilità valgono poco.
Questo vale – a maggior ragione – per le forze politiche.
Si è detto molte volte che Berlinguer aveva iniziato un distacco progressivo da Mosca.
Ammesso che ciò fosse vero, non bastava iniziarlo: bisognava portarlo a compimento.
Dopo di allora, ci si è affidati – per governare il Paese, ed in particolare per dirigere la sua politica estera – a delle figure certamente rispettabili, che si erano messe in rapporto con la Sinistra ma senza rappresentarla direttamente.
La Schlein crede di essere intelligente perché tiene il piede in due staffe, dicendosi solidale con Israele ma riservandosi di valutare caso per caso – non si capisce in base a quale criterio – quanto fa per difendersi, e cioè per sopravvivere.
La Signora elvetico – germanico – statunitense pensa forse che Hamas tollererebbe il suo patrocinio degli omosessuali e dei transessuali?
Non soltanto lo impedirebbe, ma reprimerebbe per prima lei stessa.
Non si esce – a distanza di tanti anni – dall’ambiguità di Berlinguer: che prendeva le distanze dall’Unione Sovietica, senza però trarre da questo atteggiamento le necessarie conseguenze.
Che oggi consistono nel partecipare senza riserve alla difesa dal terrorismo.
La Meloni ne approfitta per chiedere ed ottenere mano libera dai nostri alleati.
Anche in politica interna, facendo loro avallare una riforma costituzionale concepita per rendere irreversibile il suo potere personale.

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Mario Castellano  4/11/2023
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