L’apertura da parte dell’Italia in territorio albanese di alcuni Centri di Detenzione Temporanea solleva dei problemi giuridici simili ...
L’apertura da parte dell’Italia in territorio albanese di alcuni Centri di Detenzione Temporanea solleva dei problemi giuridici simili – almeno per alcuni aspetti – a quelli causati a suo tempo dalla incarcerazione a Guantanamo, da parte degli Stati Uniti, di numerosi sospetti di terrorismo.
A suo tempo, trovandoci nel Paese di adozione a stretto contatto con alcuni colleghi nordamericani, i quali dedicavano anch’essi la loro attenzione a questi temi, esprimemmo e pubblicammo il nostro parere.
In primo luogo, le persone detenute a Guantanamo non potevano essere considerate – da nessun punto di vista – quali prigionieri di guerra: il cui “status” è regolato da diverse Convenzioni di Ginevra.
In primo luogo, in quanto gli Stati Uniti non avevano dichiarato guerra agli Stati di rispettiva appartenenza: né la guerra era stata deliberata dal Congresso, come esige la Costituzione americana.
Risultava parimenti impossibile sottoporli a procedimento penale dinnanzi ai competenti organi giurisdizionali statunitensi in quanto i reati di cui costoro venivano accusati erano stati commessi al di fuori del territorio nazionale.
Per determinare a quale Stato spetti l’esercizio della giurisdizione penale, vige – salvo eccezioni - precisamente il criterio territoriale: in base al quale essa è di competenza della Nazione in cui il reato viene commesso.
Il trasferimento dei detenuti sul suolo americano avrebbe dunque comportato paradossalmente la loro scarcerazione, non essendo possibile esercitare nei loro confronti alcuna azione penale.
La conferma “a contrario” di tale situazione venne dal caso dell’unico cittadino degli Stati Uniti catturato in Afghanistan: il quale fu rimpatriato, processato e condannato per alto tradimento.
Cioè, di un reato contro la sicurezza dello Stato, che è perseguibile anche quando venga commesso all’estero.
Anche se la Magistratura americana avesse comunque deciso di processare i detenuti di Guantanamo, sarebbe comunque risultato impossibile ottenere nei confronti di molti di loro la prova della responsabilità penale.
Qualcuno asseriva che questi soggetti avessero commesso dei crimini di guerra contro cittadini statunitensi, ma questo risultava manifestamente impossibile: prima della invasione dell’Afghanistan, che permise la loro cattura, non vi era stato infatti nessuno scontro tra le bande armate cui essi appartenevano e le Forze Armate degli Stati Uniti.
La possibilità di processare dei militari stranieri per crimini di guerra è prevista dalle Convenzioni di Ginevra, ma – come abbiamo già ricordato – le norme in esse contenute in tanto si applicano in quanto esista per l’appunto uno stato di guerra.
Che – lo ripetiamo - non era stata dichiarata.
Nella certezza che si trattasse di terroristi, essi venivano dunque trattenuti senza limiti di tempo, violando così quelle Convenzioni Internazionali in cui si stabilisce il diritto di ogni detenuto ad essere processato, e soprattutto il divieto di limitare la libertà personale di chi non sia sottoposto a procedimento penale.
Quanto poi ai reati commessi dai militari americani nei confronti dei detenuti, non risultava possibile promuovere alcun procedimento penale.
I militari stranieri che si trovano all’estero in base ad un atto di Diritto Internazionale stipulato tra lo Stato in cui operano e quello a cui appartengono godono praticamente dello stesso “status” di immunità riconosciuto ai Diplomatici.
Ammesso che ciò fosse materialmente possibile, i militari americani non avrebbero potuto dunque essere processati dalla Giustizia cubana.
In Italia, si ricorda il caso dell’omicidio colposo plurimo commesso dal pilota americano che fece precipitare una cabina della funivia del Cermis.
L’unica conseguenza consistette in un procedimento disciplinare a suo carico, interno naturalmente alle Forze Armate statunitensi.
La Magistratura italiana si trovava in una situazione di carenza di giurisdizione.
Come anche quella degli Stati Uniti, sempre in base al principio per cui può essere giudicato in sede penale soltanto chi commette un reato sul territorio nazionale.
Cominciamo da questo ultimo aspetto la valutazione dei problemi giuridici posti dall’apertura dei Centri di Detenzione italiani in Albania.
Il nostro personale, tanto militare quanto civile, sarà immune dalla giurisdizione penale albanese per i motivi che abbiamo già ricordato.
Qualora dunque un migrante venisse maltrattato, nessuno potrebbe sottoporre i nostri funzionari ed i nostri militari di guardia a procedimento penale, né in Albania, né in Italia.
Questa potrebbe essere una delle ragioni per cui i Centri vengono costituiti all’estero: il personale addetto godrà in pratica di una immunità penale completa.
Già si è detto dei reati eventualmente commessi contro i detenuti.
“Quid juris” però qualora, per esempio, un recluso ne uccidesse un altro?
In teoria, sarebbe competente a giudicarlo la Magistratura albanese.
A volte succede che in una Ambasciata vengano commessi dei reati.
In genere perché vi penetrano dei ladri, ma nel Consolato saudita ad Istambul si è verificato il famoso caso di Khashoggi, cioè di un cittadino dell’Arabia che vi è stato ucciso premeditatamente dai Servizi Segreti.
La procedibilità per un reato commesso in una sede diplomatica esiste in teoria, ma dipende in pratica da una serie di circostanze, rimesse alla discrezione dello Stato cui appartiene la rappresentanza.
Khashoggi non è ufficialmente morto, perché i Sauditi non hanno comunicato ai Turchi neanche il suo decesso, e tanto meno le cause.
In primo luogo – come appunto testimonia il caso di Istambul - la “notitia criminis” perviene all’Autorità Giudiziaria dello Stato ospitante soltanto se lo vuole l’Autorità Diplomatica.
In secondo luogo, l’accesso ai luoghi dove sia stato commesso il reato dipende anch’esso – data l’extraterritorialità della sede diplomatica – dalla previa autorizzazione rilasciata dall’Ambasciatore o dal Console.
L’impossibilità di svolgere indagini di Polizia Giudiziaria rende molto difficile la procedibilità, anche qualora la Magistratura Inquirente abbia ricevuto la “notitia criminis”.
Sopponiamo però che la persona accusata di un reato debba essere arrestata, essendo obbligatorio il mandato di cattura.
Da una parte, a costui è vietato – in base al Memorandum stipulato tra Italia e Albania - uscire dal Centro, ma dall’altra parte occorre condurlo in prigione: quale norma prevale?
Prevale la legge della giungla, che nel nostro Paese di adozione viene chiamata “Ley del Monte”.
Come il personale italiano addetto ai Centri avrà mano libera sui detenuti – diversamente da quanto avviene sul nostro territorio – così gli stessi coatti potranno scannarsi impunemente tra di loro.
L’optimum sarà delegare ad un migrante i regolamenti di conti tra carcerieri e carcerati.
In tal modo, si eviterà anche di incorrere nella responsabilità disciplinare.