Roberto Gremmo, Chi ha sconfitto il “Sessantotto”, Storia Ribelle Editore, 288 pagine, s.i.p.
Roberto Gremmo, Chi ha sconfitto il “Sessantotto”, Storia Ribelle Editore, 288 pagine, s.i.p.
Roberto Gremmo, storico dirigente dell’Indipendentismo piemontese, ha esordito nel suo impegno politico quale componente della generazione del “Sessantotto”, di cui rivisita l’esperienza in un corposo saggio: nel quale si enunziano alcune tesi che condividiamo, mentre altre viceversa ci trovano in rispettoso disaccordo.
Vale comunque per tutti quanti hanno vissuto quella stagione il motto latino “Errare humanum, perseverare diabolicum”.
Visto che finalmente assistiamo alla probabile apertura di un a nuova fase di lotta, esponiamo i nostri motivi di consenso e di dissenso, nella consapevolezza che una riflessione condivisa possa favorire questa volta uno sbocco meno deludente.
È comunque nostro dovere consegnare l’esperienza maturata in quell’epoca della nostra vita alle giovani generazioni.
L’Autore traccia una discriminante tra i soggetti politici sorti in seguito al “Sessantotto”, che suddivide - in base ai risultati di una scrupolosa ricerca di archivio, compiuta esaminando soprattutto i documenti finora inediti provenienti dai Servizi Segreti – nelle contrapposte categorie dei “filosovietici” e degli “antisovietici”: gli uni dediti sostanzialmente a provocare la sconfitta del Movimento, gli altri a perseguire la sua vittoria.
Non sempre però – a nostro modesto avviso – Gremmo traccia in modo corretto la linea divisoria tra i seguaci dell’una e dell’altra tendenza.
Su questo, però ci soffermeremo più avanti, fornendo qualche esempio della difficoltà che inevitabilmente si incontra nel compiere una simile cernita.
Quanto a nostro avviso manca nell’analisi compiuta dall’Autore è la necessaria annotazione – ed anzi la doverosa sottolineatura – del fatto che il settore “filosovietico” ebbe buon gioco ad imporsi non solo e non tanto perché divise i movimenti appartenenti alla nuova Sinistra, quanto perché si schierò dalla sua parte l’intero Partito Comunista, guidato in questa scelta da Berlinguer.
Il quale ebbe buon gioco nello sfruttare qualche ingenuità certamente commessa dai cosiddetti “Sessantottardi”, estendendo indistintamente a tutto il Movimento la responsabilità di alcuni sporadici e comunque non gravi episodi di violenza.
Che non ebbero comunque mai carattere sistematico ed organizzato.
Fino a quando un settore estremista decise di passare alla cosiddetta “lotta armata”.
Si trattò di una scelta che avrebbe portato inevitabilmente alla criminalizzazione, e che comunque contraddisse l’orientamento assunto fin dalla Liberazione dalla totalità del Movimento democratico: l’azione politica avrebbe dovuto essere sempre condotta nei limiti della legalità, pur cercando naturalmente di ampliare gli spazi in cui la si poteva svolgere.
Il terrorismo costituì certamente un errore da ogni punto di vista: sul piano politico portò ad una restrizione degli spazi disponibili per l’azione di massa; dal punto di vista morale causò l’uccisione – per giunta inutile – di persone innocenti; in Diritto condusse a perpetrare infiniti e gravissimi reati.
Se però la responsabilità giuridica e morale della cosiddetta “lotta armata” ricade soltanto sui suoi promotori, la maggiore responsabilità politica di questo errore deve essere attribuita a Berlinguer ed ai suoi collaboratori.
I quali avrebbero dovuto usare la spinta offerta dal Movimento per dirigerla verso una azione legalitaria, ma radicalmente riformista, come avvenne in tutti gli altri Paesi dell’Europa Occidentale, dove il Sessantotto generò – sia pure non immediatamente – l’alternanza: che costituisce il pieno e naturale sviluppo della democrazia rappresentativa.
Berlinguer rifiutò questa prospettiva a causa del suo duplice opportunismo.
Egli preferì attendere il momento della inclusione del suo Partito nel sistema di potere conservatore instaurato in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, ritenendo che sarebbe comunque prima o poi arrivato.
Ed invece questo momento non arrivò mai, proprio perché il movimento politico che avrebbe dovuto propiziarlo si era andato esaurendo: per cui il Segretario dovette accontentarsi di una cooptazione nel sottogoverno.
Per propiziare questo modesto ed illusorio risultato, Berlinguer assecondò il Potere nella repressione del Movimento, confidando in tal modo di acquisire delle benemerenze da far valere nei negoziati con la controparte.
Contemporaneamente, il Segretario non voleva contrariare i suoi referenti e finanziatori sovietici dimostrando che una politica di Sinistra poteva essere svolta – con beneficio per i lavoratori – uscendo da quei canoni ideologici che egli non volle mai mettere in discussione.
In questa scelta, egli fu certamente condizionato ed incoraggiato dall’influenza esercitata sul Partito da quanti lavoravano – apertamente od occultamente – per i Servizi Segreti di Mosca.
Questi soggetti operarono indubbiamente anche nella nuova Sinistra, ma risultò decisiva l’influenza esercitata da certi dirigenti delle Botteghe Oscure.
Nella nostra Provincia operavano in questo senso – a quanto risulta dai cosiddetti “Documenti Mitrokin”, di cui Gremmo riconosce l’autenticità e la credibilità – tanto il Segretario della Federazione quanto il suo più stretto collaboratore.
Il quale svolgeva due compiti: in qualità di Capogruppo nel Consiglio Comunale del Capoluogo, controllava i contenuti ideologici di ogni esternazione dei rappresentanti del Partito, mentre approfittava del suo ruolo di dirigente per fornire informazioni ai Sovietici non già sugli appartenenti alla parte politica avversa - il che lo avrebbe qualificato comunque come un cittadino sleale nei riguardi dello Stato - bensì sugli stessi esponenti della Sinistra.
Chi tra loro manifestava tendenze eterodosse veniva sanzionato, mentre chi si conformava con la
linea ufficiale faceva carriera.
Basta comparare le cariche ricoperte dai vari esponenti per verificare come ogni avanzamento od arretramento rispondesse a tale criterio.
C’era poi il gruppo di ex Resistenti collegato – attraverso i loro rapporti di affari - ai Servizi Segreti della Jugoslavia: i quali nella fase politica successiva al Sessantotto non agivano in contradizione con quelli dell’Unione Sovietica.
Se a Roma bisognava mostrarsi ligi alla linea del “Compromesso Storico”, ad Imperia si doveva assecondare la sua manifestazione negli accordi commerciali: da una parte con Belgrado, dall’altra parte coi dirigenti democristiani che vi erano coinvolti.
Il Sessantotto non fallì per avere mancato di realizzare una Rivoluzione, impossibile nel contesto sociale e geopolitico dell’Italia di allora; fallì viceversa perché non seppe produrre i risultati possibili in tale contesto, e cioè la democrazia dell’alternanza.
Se i gruppi della nuova Sinistra vennero distrutti, il Partito Comunista si condannò ad un lento ma inesorabile logoramento.
Di cui oggi vediamo i risultati.
Fin qui il nostro dissenso dalle conclusioni cui giunge il libro di Gremmo.
Siamo invece pienamente d’accordo con la sua ricostruzione storica quando egli illustra la chiaroveggenza dimostrata dai movimenti politici di quell’epoca nel cogliere il possibile nesso tra l’impegno rivoluzionario – il discorso vale però anche per la prospettiva riformista – e la causa dell’Autodeterminazione di alcune Regioni inserite nello Stato italiano.
Nel caso del Tirolo Meridionale, questa visione lungimirante consentì di superare l’etichettatura dei separatisti quali “neonazisti”, diffusa in tutta la vulgata politica prevalente in quell’epoca.
Forse Gremmo avrebbe dovuto estendere il suo campo di indagine fino a Vienna: l’appoggio offerto da certi ambienti austriaci ai separatisti non era proprio soltanto dell’ambiente conservatore raccolto nel Tirolo Settentrionale intorno al “Berg Isel Bund”, ma anche di chi si rifaceva alla collocazione dell’Austria nel campo dei Paesi neutrali.
Grazie alla quale il Cancelliere Kreisky aveva stabilito rapporti di collaborazione con il movimento detto dei “Non Allineati”, contrapposto all’Occidente senza essere subordinato all’Unione Sovietica.
Tanto che ne faceva parte anche la Cina.
Il separatismo sardo si basava viceversa sulla lettura della condizione dell’Isola quale colonia interna.
Il che collocava la causa indipendentista nell’ambito delle lotte per l’emancipazione del Terzo Mondo.
Chi si rese conto più di altri delle prospettive che questa situazione poteva aprire fu Feltrinelli.
Che però Gremmo liquida sbrigativamente come un agente di Mosca, contraddistinto dalla sua ottusa obbedienza alle direttive del Cremlino.
Ci pare però che l’Autore trascuri certi aspetti della biografia dell’Editore.
Feltrinelli aveva deciso di pubblicare “Il Dottor Zivago”.
Ciò avvenne malgrado la Rossanda, agendo per conto delle Botteghe Oscure e dell’Unione Sovietica, avesse fatto di tutto per impedirlo.
Quanto al legame con Fidel Castro, esso risale al periodo in cui il “Lider Maximo” cercava ancora di aprire degli spazi ad una prospettiva rivoluzionaria, prima di appiattirsi sulla obbedienza ideologica e sulla subordinazione in politica internazionale all’Unione Sovietica.
Feltrinelli morì prima di assistere alla fase finale di questa degenerazione.
In Sardegna, l’Editore si mosse con la goffaggine propria di un (im)politico dilettante, quale egli fu per tutta la sua vita: questo suo limite lo portò ad essere gabbato da ogni sorta di ciarlatani e di provocatori.
Come testimonia la sua fine.
Quando Feltrinelli raggiunse Graziano Mesina nel suo covo del “Supramonte” di Orgosolo, il bandito – incapace di uscire dalla sua dimensione di delinquente comune – fu sul punto di ucciderlo, ritenendolo un provocatore.
Quale in effetti Feltrinelli era in tale circostanza.
Anche qui, però, il discorso intrapreso in modo velleitario e dilettantistico dall’Editore poteva essere sviluppato a tutt’altro livello, e con strumenti culturali più adeguati.
Gremmo non cita il fatto che un gruppo di giovani studiosi della Università della Calabria tentò in quel tempo di riprendere il discorso indipendentista meridionale, collegandolo per l’appunto con le lotte dei Paesi del Terzo Mondo.
Venne anche pubblicata per breve tempo – prima che i promotori si disperdessero - una rivista di studi politici, le cui copie sono oggi introvabili.
Anche in questo caso, prevalse la linea del Partito Comunista, il cui meridionalismo si fondava sul dogma amendoliano dell’Unità Nazionale, intesa “tout court” come fatto progressivo.
Benché in alcune pagine di Gramsci se ne scorga una lettura completamente diversa.
Che oggi sta riemergendo, tanto negli orientamenti culturali come nell’azione politica.
Ricordiamo infine, tra i punti in cui concordiamo con Gremmo, i tentativi - che egli registra nel suo libro – volti a stabilire rapporti di collaborazione tra certi soggetti rivoluzionari espressi dalla Sinistra ed alcuni loro omologhi appartenenti alla Destra radicale.
Ciò avvenne in particolare – come annota l’Autore – in provincia di Imperia, per iniziativa del nostro amico Giovanni Donaudi.
Ci sarebbe voluto molto tempo prima che Preve catalogasse queste categorie come “dicotomie” obsolete.
Oggi anche questo discorso riprende: a livello nazionale vi sono quanti – da “Destra” come da “Sinistra” – convergono nel denunziare come falso ed ingannevole il sovranismo esibito dalla Meloni.
Vi sono prò soprattutto coloro che operano per l’Autodeterminazione delle identità regionali.
Questo è precisamente il campo di azione scelto da Gremmo, sul quale dovremo costruire una collaborazione.
Il fatto che l’indipendentismo delle cosiddette “Parte Negate”, sacrificate tanto dal processo di edificazione degli Stati Nazionali quanto dal dogmatismo “internazionalista” proprio delle ideologie del Novecento, rinasca in tutta l’Europa Occidentale dimostra come certe intuizioni, concepite nei periodi in cui le aspirazioni al cambiamento si manifestano in tutta la loro forza utopica e creativa, operino come un seme gettato nella storia.
Che prima o poi finisce per crescere, e per dare i suoi frutti.