Beatrice Baratto, Né giorno né notte.
Beatrice Baratto, Nè giorno né notte

Cara Beatrice,
Una persona di mondo quale tu sei, sa perfettamente che non è costume scrivere due volte dello stesso libro sullo stesso giornale, e per giunta una subito dopo l’altra.
Faccio una eccezione in seguito alle tue gentili insistenze, ed in nome della nostra amicizia.
Spero non ti sia sfuggito che ho dapprima pubblicato la recensione della tua esistenza, dal momento che si trova riflessa nel libro.
Per cui mi premeva non tanto pubblicizzare i contenuti dell’opera, bensì piuttosto illustrare l’impressione che essa produce su chi ha avuto il privilegio di conoscerti, ancor prima di leggerti.
Se il proposito consiste nel tracciare bilancio dell’intera esistenza per renderlo pubblico, quanto importa è per l’appunto il calcolo che ne fanno gli altri.
Vengo quindi al dunque: anche al netto del dovere morale – da te scrupolosamente osservato - di essere severi con sé stessi, mi sento di esprimere della tua vita una valutazione migliore di quella che ne dai tu stessa.
Cecov diceva che quando appare nella prima scena di un’opera teatrale una pistola, prima o poi l’arma finisce per sparare.
Nei tuoi racconti appare inizialmente una coppia, presentata dalla donna, e la conclusione è costituita dalle corna.
Le quali – secondo te – costituiscono dunque l’esito inevitabile di tale rapporto.
Se però è vero che una pistola serve per fare fuoco, il rapporto tra un uomo e una donna – pur potendo naturalmente rompersi – viene stabilito, almeno in linea di principio, per durare.
Può essere che col tempo si riveli una incompatibilità di carattere, ma non è bene che la relazione si instauri partendo dal presupposto che prima o poi – nei tuoi racconti più prima che poi – le si porrà fine.
Chi concepisce tale intenzione è certamente un immorale, e precisamente una immoralità generale, irrimediabile, cosmica, contraddistingue la nostra società quale è raffigurata nella tua opera.
Tale caratteristica accomuna tutte le classi sociali: dall’alta borghesia, rappresentata dai Dirigenti d’Azienda con le loro consorti patinate fino ai ceti popolari; dagli esclusivi condomini del centro fino agli squallidi casermoni della periferia.
Tra l’uno e l’altro ambiente intercorrono delle relazioni, basate però anch’esse sulle infedeltà coniugali.
Irrompono sulla scena anche gli immigrati, rappresentati dalle “femmes fatales” importate dall’Europa Orientale, ma anch’esse entrano nel gioco solo per introdurvi la variante costituita dai tradimenti mercenari e occasionali.
Che producono quanto meno l’effetto collaterale consistente nel riequilibrare i rapporti economici tra Paesi ricchi e Paesi poveri: il fiume di sesso e di Champagne versato nei locali
notturni genera infatti un flusso di soldi diretto verso l’Ucraina e la Romania.
I dittatori hanno l’ossessione del tradimento, che essi – nel loro delirio paranoico – vedono dovunque.
La tua visione della società rischia di riflettere questa stessa fissazione.
Al punto che il marito fedele non esiste, anzi non può esistere.
Mi vorrai scusare, ma io mi sento offeso.
Essere dichiarato inesistente costituisce infatti un insulto addirittura più grave di ogni contumelia.
Per giunta, mi domando a che cosa sia servito astenermi dal tradire mia moglie quando ancora il sangue ribolliva, quando costava padroneggiare i propri sensi.
Il tuo ritratto della società attuale assomiglia dunque ad una caricatura.
Le tragedie, in fondo, sono precisamente delle caricature.
In quanto esse, mettendo in scena dei casi – limite, ingigantiscono le situazioni: in modo che tutti vi possano riconoscere una parte di sé stessi.
I tragici greci, però, inscenavano le vicende dei personaggi mitologici, o addirittura degli Dei.
Quando invece tu affermi che anche ogni “ménage” familiare, sia esso alto borghese, piccolo  borghese, proletario o sotoproletario è inevitabilmente tragico – quanto meno nel senso che nasconde comunque un tradimento – finisci per banalizzare la tragedia.
Senza che essa, per giunta, sfoci nella catarsi.
Cioè nella purificazione.
Non certo costituita dal “lieto fine”.
Lo “happy end” esiste infatti soltanto nei film americani.
Oltre che nei Promessi Sposi, dove però viene determinato dal Dio Provvidente.
La catarsi è data dal giudizio morale.
Che non verte sugli uomini (“Nolite judicare”): i quali comunque sono spinti inesorabilmente dal Fato, ma riguarda piuttosto le loro azioni.
Nel tuo libro manca precisamente l’espressione del criterio morale.
Non certo perché tu lo ignori.
Non vi figura in quanto risulta assente dall’insieme della nostra società.
Ecco perché la vita ti ha spinto a cercare quanti ancora lo posseggono.
Trovandoli ai due estremi della scala sociale: da una parte ci sono gli aristocratici, che ancora credono nella Tradizione; dall’altra i mafiosi meridionali e i marginali delle “favelas”.
I quali ancora conoscono la legge della solidarietà, e – a loro modo – dell’Onore.
Questa conclusione, però, viene soltanto sussunta nel tuo libro.
La si trova viceversa, esplicita, nella tua vita.
Adesso avrai capito perché ho scritto della tua esistenza, e non dell’opera letteraria.
Visto però che tu volevi la recensione del libro, sei accontentata.
Ora scusami, ma devo dedicarmi ad altre cose.
A fare le corna a mia moglie, peraltro, non ci ho mai neanche pensato.
Ti abbraccio.
Tuo affezionatissimo

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Mario Castellano  05/7/2024
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