Il Professor Andrea Riccardi, fondatore ed animatore della Comunità di Sant’Egidio,...
Il Professor Andrea Riccardi, fondatore ed animatore della Comunità di Sant’Egidio,
ha affermato che Israele è uno Stato democratico, ma non è uno Stato liberale.
Da uno studioso del suo livello, non ci saremmo attesi un simile svarione.
Risulta infatti possibile – e la storia ne ha dato molti esempi, soprattutto nell’Ottocento - che esista uno Stato liberale, il quale afferma e riconosce le cosiddette “libertà borghesi” senza essere però democratico, in quanto il popolo non è rappresentato – ovvero è rappresentato in misura insufficiente - nelle sue Istituzioni.
Lo Stato unitario italiano, cui Riccardi ha dedicato buona parte della sua attività storiografica, ne costituì un esempio: il voto per censo venne infatti abolito – con l’avvento del suffragio universale – soltanto nell’epoca giolittiana.
Perché le masse vi fossero pienamente inserite, fu necessario attendere lo sconvolgimento determinato dalla Prima Guerra Mondiale.
Dopo la quale, non essendosi rivelati né i Socialisti, né i Popolari in grado di compiere tale operazione, vi provvide Mussolini.
Il “Duce” fece però pagare per questo un prezzo molto alto al popolo italiano: consistente in un inquadramento di tipo paramilitare e in una disciplina ideologica totalitaria.
Questo inserimento avvenne dunque mediante l’abbattimento dello Stato liberale e l’abolizione delle libertà in esso vigenti per costituire non già uno Stato democratico, ma comunque uno Stato “di massa”.
Si può applicare ad Israele la qualifica di Stato non liberale?
Tutt’al più, l’esclusione dal voto degli abitanti arabi dei territori occupati potrebbe giustificare che si mettesse in discussione il suo carattere democratico.
Gli studiosi di Demografia concordano su di un punto: la popolazione araba, sommando i cittadini non ebrei dello Stato di Israele con gli abitanti della Cisgiordania e di Gaza, supera – o comunque è destinata a superare – la popolazione ebraica.
Gli Arabi residenti nei territori occupati sono però esclusi dalla rappresentanza politica.
Se anche volessimo accettare il paradosso in base al quale Israele non si può di conseguenza qualificare come uno Stato democratico, dovremmo però – come esige l’onestà intellettuale – domandarci chi è responsabile di tale situazione.
Gli Arabi della Cisgiordania e di Gaza non vogliono assolutamente divenire cittadini israeliani, e qualora le Autorità di Gerusalemme li dichiarassero tali, i loro simpatizzanti – tra cui Riccardi – insorgerebbero contro questo sopruso.
Ricordiamo che agli abitanti arabi di Gerusalemme Orientale Israele riconosce il diritto di voto nelle Elezioni Amministrative, ma quasi tutti rifiutano di esercitarlo.
Non rimane dunque che la soluzione detta dei “due Stati per due popoli”, basata sulla separazione tra Arabi e Israeliani.
La costituzione di uno Stato palestinese venne offerta ad Arafat da Clinton e Barak a Camp David, quando il Governo israeliano propose di ritirarsi da quasi tutta la Cisgiordania, da Gaza e perfino dalla gran parte di Gerusalemme Orientale.
È interessante valutare in base a quale ragionamento Arafat rifiutò questa offerta: egli pretese che Israele accettasse il reinsediamento sul proprio territorio di tutti i Palestinesi fuggiti in seguito dalla guerra del 1948, nonché dei loro discendenti.
Cui viene riconosciuto - caso unico al mondo - lo “status” ereditario di rifugiati.
A questo punto, però, non vi sarebbe stata nessuna soluzione del problema mediorientale: se la sua causa consiste nell’impossibilità di convivere tra Arabi ed Ebrei, l’unico modo per porre termine al conflitto consiste nel separarli.
Il che costituisce certamente un male, ma si tratta di un male minore rispetto alla continuazione della guerra all’infinito.
Ora l’offerta espressa a Camp David è stata anche formalmente ritirata, con un voto quasi unanime del Parlamento israeliano.
Se Riccardi nega la qualifica di “liberale” ad Israele, lo fa presumibilmente per due motivi.
Uno dei quali consiste nel rifiuto di considerare propri cittadini gli Arabi dei territori occupati.
Abbiamo però già visto che ciò avviene perché essi non vogliono essere cittadini israeliani.
L’altro motivo sta nel fatto che Israele rifiuta di ritirarsi dai territori occupati.
Il che potrebbe venire sensatamente richiesto se esistesse la garanzia determinata tanto dal reciproco riconoscimento quanto soprattutto da un impegno alla non aggressione.
Gaza, da cui Israele si era ritirato ormai da molto tempo, poteva costituire l’esempio e l’embrione di uno Stato palestinese intenzionato a praticare tale tipo di convivenza.
La storia non si fa con le ipotesi, ma questo territorio, attraendo investimenti dai Paesi Arabi “del petrolio”, dall’Occidente, dalla diaspora palestinese e dallo stesso Israele – disposto anch’esso ad effettuarli pur di disinnescare la mina posta sua suo confine - poteva diventare la Singapore del Mediterraneo.
Gaza è invece diventata una piccola Corea del Nord, dove l’esistenza stessa dello Stato era finalizzata unicamente a perpetrare una aggressione.
Con la differenza che i Nordcoreani si limitano a giocare alla guerra, mentre Hamas l’ha fatta il Sette Ottobre.
L’unica speranza consiste in una pressione esercitata sui Palestinesi dagli Arabi “del petrolio” – i quali hanno già accettato di convivere con Israele – affinché compiano la stessa scelta.
Che è mancata in quanto i Palestinesi non hanno mai saputo esprimere una classe dirigente all’altezza della situazione.
Non essendoci nessuno statista, è mancato chi sapesse fare del realismo la base per un futuro di pace.
Willy Brandt rinunziò ai territori tedeschi posti al di là dell’Oder – Neisse.
Hamas, invece, fa sfilare i suoi sostenitori occidentali al grido “From the river to the sea Palestine will be free”.
Il che significa rivendicare la distruzione di Israele.
Il quale avrebbe il diritto di esistere anche nella denegata ipotesi che non fosse uno Stato liberale.
Riccardi potrebbe almeno domandarsi perché – secondo lui – non è tale.
La risposta è una sola: perché troppo a lungo i vicini gli hanno negato il diritto di esistere.
Che cosa sarebbe successo nel 1973 se Israele si fosse trovato nei confini del 1967?
Sui quali – secondo alcuni – avrebbe dovuto ritirarsi senza condizioni.
Quanto risulta più grave è il fatto che le valutazioni politiche si riflettano su quelle giuridiche.
Spingendo Riccardi a distorcere il Diritto.
Il Professore costituisce, insieme con tutto il suo sodalizio, la punta più avanzata della tendenza di certi settori della Santa Sede a favorire il cosiddetto “Sud globale”.
Le cui ragioni storiche, politiche e morali non devono tuttavia portare necessariamente ad avallare tutte le scelte compiute dai suoi dirigenti.
Perfino quando si rivolgono contro i Cristiani.
Che vengono perseguitati in quanto tali, senza neanche la scusa della confusione – comunque infondata – tra l’antisionismo e l’antisemitismo.
Riccardi dovrebbe sapere che i Cristiani del Medio Oriente sono condannati alla estinzione.
Le loro comunità – falcidiate dall’ostilità dell’ambiente, sempre più orientato verso l’Islam radicale – sono costrette all’emigrazione in Occidente.
Eppure, la politica della Santa Sede non è certamente orientata all’ostilità nei confronti dei Musulmani.
Il Papa, parlando ad Al Azhar, propose anzi una “alleanza” con l’Islam.
È almeno lecito chiedere agli alleati di essere rispettati?
L’unico luogo del Medio Oriente dove cresce il numero dei Cristiani è precisamente Israele.
Basterebbe questo per considerarlo “liberale”.
Salvo naturalmente che si voglia modulare il proprio giudizio soltanto in base – per l’appunto – alle alleanze.
Che però risultano manifestamente diseguali.
Fino al punto che si tacciono le ingiustizie subite da parte di chi viene considerato alleato, e per converso si criticano ingiustamente quanti sono ritenuti dei nemici comuni.
La ricerca della pace e della concordia con i Musulmani non è naturalmente in discussione.
Non si deve tuttavia dimenticare che la comunanza di ispirazione con gli Israeliti ci permette quanto meno di parlare lo stesso linguaggio.
Cioè, di capirci, quali che possano essere i reciproci dissensi, dato che ci uniscono il concetto di democrazia ed il concetto di liberalismo.
Lo prova il fatto che si può divergere sulla loro interpretazione e realizzazione nella prassi politica concreta.
Questi principi non sono invece propri dell’Islam.
Quanto meno quali noi li intendiamo.
Sarebbe dunque opportuno che la Santa Sede precisasse – a scanso di equivoci – che cosa intende per democrazia e per liberalismo.
Spesso la sua azione diplomatica si è svolta con l’ausilio di altri soggetti, contraddistinti dalla fede comune ma non vincolati all’obbedienza, como lo sono invece i suoi organi.
A cominciare dalla Segreteria di Stato.
Nulla di male quando questa sorta di delega non formale ha permesso di contattare ambienti e soggetti che rimanevano ancora fuori dal raggio di azione della Diplomazia Pontificia.
Gli orientamenti propri dei lori dirigenti, così come le loro simpatie, e forse anche i sostegni economici concreti, non devono tuttavia confondersi con quelli propri della Santa Sede.
Che può naturalmente trovarsi su singole questioni in accordo o in disaccordo con lo Stato di Israele, ma dovrebbe fare attenzione a non mescolarsi con chi auspica e persegue la sua distruzione.
Noi siamo persuasi – e lo dichiariamo pubblicamente – che dalla sua sopravvivenza dipende in sostanza anche la nostra.
Ci esprimiamo comunque sempre a titolo personale, senza attribuirci alcun mandato a rappresentare la Chiesa.
Questo, però, dovrebbe valere per tutti.

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Mario Castellano  27/7/2024
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