Le ultime notizie da Genova segnalano un recupero di Piciocchi rispetto alla Salis.
Se i sondaggi confermassero tale tendenza – di per sé preoccupante per la candidata della “Sinistra” – rivelerebbero che questa avvenente Signora, come peraltro avevamo già sospettato, non porta con sé alcun cosiddetto “valore aggiunto”.
Sarebbe infatti bastato ripetere “tel quel” l’esito delle Regionali – che nel Capoluogo avevano dato un cinque per cento di vantaggio al pur scialbo e svogliato Orlando – per riconquistare il Comune.
Se questo margine viceversa si riduce, il cosiddetto “trend”, protraendosi di qui fino al giorno del voto, potrebbe portare ad un ribaltamento clamoroso.
La nostra personale valutazione è che la Salis riesca comunque a prevalere.
Il nuovo Sindaco dovrà però comunque dedicarsi – insieme con tutta la Coalizione che la sostiene – ad una valutazione molto attenta dell’esito delle urne.
I motivi della possibile riduzione del suo margine di vantaggio sono diversi, e tutti meritevoli di essere studiati.
In primo luogo, il solito Burlando, confermando il motto per cui “il lupo perde il pelo, ma non il vizio” e lungi dall’essersi ravveduto di quanto già consumato ai danni di Dello Strologo e dello stesso Orlando, si sta dando da fare (“non c’è il due senza il tre) anche a danno della Salis.
Evidentemente, in tutto quanto rimane della gloriosa “Sinistra” genovese, non c’è una sola persona abbastanza prestigiosa ed energica che lo possa diffidare da un comportamento cosiddetto “antipartito”: come lo avrebbe definito Secondo Pessi.
In certe parti del mondo, la Preistoria non è ancora terminata, egli uomini - ignorando la cosiddetta “Rivoluzione Agricola” - vivono ancora allo stadio dei “raccoglitori”.
A Genova esistono ancora, analogamente, gli Staliniani.
I quali - come i loro Compagni imperiesi, divenuti “bassotti” – trovano nei dirigenti della Destra i nuovi Capi da acclamare.
L’Amministrazione Regionale potrebbe riunirli tutti nel Parco del Monte Beigua, e portarci in visita gli alunni delle Scuole Elementari per mostrare loro come vivevano – e pensavano – i loro bisnonni.
Bucci si guarda però bene dall’adottare una simile misura, in quanto i superstiti seguaci del dittatore georgiano gli risultano ben più utili se continuano a vivere mescolati con il resto della popolazione.
Contribuendo alla perpetuazione del famigerato “Sistema Liguria”.
Se questa sorta di “Partito Trasversale” cessasse di esistere e di operare, Burlando perderebbe quella quota di potere che ancora gli rimane.
E che veniva gestito sul panfilo di Spinelli.
Risulta dunque logico che l’ex “Governatore” si dia ancora da fare, abbandonando la Micologia.
Noi non avevamo mai creduto alla favola – da lui stesso diffusa per sviare i sospetti – secondo cui l’Uomo si limitava a raccogliere i funghi.
Come non era vero che Scajola coltivasse gli asparagi.
La caduta del Comune renderebbe in sostanza vano il successo ottenuto dal “Sistema Liguria” in Regione, dove un gruppo di galeotti ha rivinto le Elezioni.
Non già malgrado le sue malefatte, bensì proprio a causa di esse.
Come dicevano i “Descamisados” dell’Argentina: “Mentoroso y ladròn, queremos a Peron!”.
Qui inizia la valutazione del secondo e più importante motivo del possibile cambio di tendenza.
“IL Secolo XIX” non è mai appartenuto ad alcun proprietario genovese.
È come se “La Stampa”, fondata dai Frassati e poi venduta agli Agnelli – ambedue famiglie ben radicate nel Piemonte – fosse stata perennemente controllata da forestieri.
O come se il “Corriere della Sera” non foste mai appartenuto ai Crespi.
Il giornale simbolo della Genova moderna venne creato dai Fratelli Perrone.
I quali erano romani, e non si trasferirono nel nostro Capoluogo se non per visitare saltuariamente la loro creatura editoriale e gli altri interessi ivi coltivati.
La funzione del quotidiano costituiva nel fornire una base “ideologica” ed una giustificazione “culturale” alla situazione in cui si era trovata la già “Superba” Repubblica Marinara a partire dal congresso di Vienna, quando terminò anche formalmente la sua condizione millenaria di Stato indipendente, ma soprattutto da quando Cavour - durante il cosiddetto “Decennio di Preparazione”, nel corso del quale il “Tessitore” agiva come se l’Unità d’Italia fosse già stata realizzata (naturalmente alle dipendenze del Piemonte), escogitò un ruolo per Genova.
Che appagasse le sue necessità economiche, ma nel contempo estirpasse le sue tradizioni e velleità politiche.
Di segno repubblicano e democratico.
Non a caso, Genova era pur sempre la Città di Mazzini.
Il quale perseguiva anch’egli l’idea dello Stato Nazionale, concepito però in termini opposti all’autoritarismo sabaudo.
Genova sarebbe stata la Capitale della cantieristica – era già in corso la transizione dalla vela al vapore – e della siderurgia.
Entrambi i loro prodotti potevano essere venduti però soltanto allo Stato.
Il Governo poteva dunque ricattare la borghesia imprenditoriale locale concedendo o lesinando le commesse.
I Perrone, non a caso, avevano soprattutto interessi nell’industria metallurgica.
Da quel momento, il loro giornale da una parte esaltava regolarmente i valori patriottici, ma dall’altra parte li usava per contrastare il Movimento dei Lavoratori.
Che non riuscì mai, nella nostra Regione, a trasformare la propria inevitabile consistenza numerica – la Città dei marinai essendo divenuta anche una Città di operai – in egemonia.
Per raggiungere questo risultato, sarebbe stato necessario infatti acquisirla a livello nazionale, dove si decidevano i destini economici della Regione.
Ora “Il Secolo XIX” – dopo la parentesi in cui, essendo passato al Gruppo GEDI di De Benedetti, mostrava qualche apparente velleità “sinistrorsa” – si presta a fare da bollettino elettorale di Piciocchi.
La Salis non dispone evidentemente di un Ufficio – Stampa all’altezza della situazione, in grado di rispondere colpo su colpo all’azione mediatica della parte avversa.
Benché Piciocchi si riveli da parte sua volta è il degno erede di quel filone di mediocri personaggi, attaccati alle sottane dei preti che – brillando della luce riflessa del Cardinale Siri – avevano invano conteso l’egemonia sull’ambiente democristiano genovese al cattolico liberale Taviani.
Il quale, per liberarsi dalla loro influenza acconsentì appena possibile all’operazione che portò la Sinistra – con Cerofolini, Giorgio Doria e Bemporad – a governare il Comune.
Mantenendo sempre un ferreo controllo sulle commesse da cui dipendeva la locale industria di Stato, l’Uomo di Bavari sapeva però bilanciare l’invadenza clericale sulla politica locale appoggiandosi alla consistenza numerica della Sinistra.
Se Siri era un uomo di notevole spessore culturale e spirituale, i suoi seguaci inseriti nel gioco politico e amministrativo erano viceversa delle nullità, e Taviani lo sapeva.
Per cui scelse come interlocutore chi costituiva il suo unico degno rivale, cioè il Cardinale.
Al quale sapeva tenere testa.
Ora non c’è più Siri, e non c’è più Taviani.
Ci sono soltanto Bucci e Piciocchi.
Il primo è l’espressione della corporazione dei Commercianti.
I quali, indegni eredi dei mercanti che avevano dominato il Mediterraneo, vendono gli ombrelli, come Pattono, ovvero il pandolce: come per l’appunto l’ex Sindaco ed attuale ”Governatore”.
Nella vecchia Democrazia Cristiana, costoro avevano ritagliato una quota di potere, espressa da un candidato alla Camera.
Regolarmente trombato, ma presentato per contare – e far valere – i loro consensi.
Questo ruolo fu svolto a lungo da Callisto Bagnara, “leader” della Confcommercio.
Ora Enrico Lupi bazzica il Capoluogo.
Non solo e non tanto perché i suoi rinomati ristoranti siamo meglio in grado – rispetto a quelli delle due Riviere – di soddisfare i suoi appetiti.
Il Presidente cerca affannosamente – insieme con Bucci – di mobilitare le proprie schiere a sostegno di Piciocchi.
Il quale a sua volta è espressione dell’Opus Dei.
Guidata in Italia dall’Ingegner Peppino Corigliano, napoletano colto ed astuto, legato alla Spagna nel solco del rapporto secolare tra la sua Città ed il Paese Iberico.
Genova vide sempre invece nella Spagna il primo nemico della propria Indipendenza, e Andrea Doria – pur barcamenandosi lungo gran parte del Cinquecento tra Madrid e Parigi – propendeva piuttosto per il vicino d’Oltralpe.
Se Corigliamo va in Chiesa, il più modesto Piciocchi va però in Sacrestia.
Come rivela la sua tipica faccia da prete.
Il clericalismo genovese, composto da uomini schiacciati dalla figura di un Sacerdote del livello di Siri, fu sempre composto per l’appunto da cosiddetti “preti mancati”.
I quali mutuano dal clero la furbizia, ma non l’intelligenza e la cultura.
La categoria espresse dunque soltanto dei soggetti mediocri, da Bodrito ad Orsini, toccando il punto più basso con Gualco.
Finito non a caso dapprima in prigione, e poi a fare da consulente IVA per le Suore.
Uniche a compiangerlo al momento dalla sua dipartita.
“Il Secolo XIX” non si sofferma però sulle “doti” del candidato della Destra.
Sarebbe come cercare di spremere sangue dalle rape.
Il Giornale – echeggiando il messaggio recapitato a Genova dai Ministri della Meloni, i quali si alternano nei comizi e negli incontri (naturalmente conviviali) con gli Imprenditori, ricorda brutalmente ai Genovesi che l’alternativa è tra l’ossequio alla Capitale – da cui provengono le commesse – e la morte per fame.
A questo punto, la Salis dovrebbe reagire con un colpo d’ala, recuperando l’orgoglio delle Città.
Dato che questa Signora lanciava il martello, dovrebbe lanciare il sasso.
Come fece Balilla.
E gridare che è meglio morire in piedi che vivere in ginocchio.
La Signora è di ascendenza sarda.
A Genova, la corporazione dei suoi Corregionali è molto radicata e potente, riunita nell’Associazione “Sarda Tellus”.
Che già aveva espresso il Sindaco Pericu.
Il quale si fece seppellire avvolto per l’appunto nella bandiera coi Quattro Mori.
I Sardi sono gente proverbialmente orgogliosa.
Gramsci si lasciò morire, rifiutando di chiedere la libertà condizionata per motivi di salute.
“Doddore” Meloni volle addirittura morire di fame pur di non pagare alcun tributo allo Stato italiano.
“Moderate, Barones, sa tirannia” dice l’Inno Nazionale dell’Isola.
Se La Schlein riunì solo seicento persone per protestare contro la degenerazione morale di Signorini e di Toti, pareva che una simile insurrezione - basata sul civismo e sull’etica collettiva – si fosse viceversa realizzata intorno alla Salis.
La quale però non dimostra di avere la stoffa di una Giovanna d’Arco.
Né tampoco l’energia matronale della madre di Mazzini, che allevò il figlio nel culto della Libertà e del Dovere.
La Signora gira sorridendo ovunque, e non disdegna gli apporti recati alla sua Causa dalla cosiddetta “Società Civile”.
Tutto questo, però, non basta.
Giovanni Battista Perasso non era altrettanto colto, e tanto meno altrettanto raccomandato.
Anche se avrebbe potuto essere anch’egli uno di quelli che nel linguaggio sportivo si chiamano “lanciatori”, non gettò il famoso sasso per mettersi al servizio dei Malagò del suo tempo.
In piazza Corvetto c’è una lapide, che la Vincenzi fu costretta ad apporvi, ma in una collocazione defilata, per non urtare la suscettibilità del Prefetto.
Essa ricorda i fatti del 1849, quando la Città, insorta contro il Decreto di Moncalieri, che revocava lo Statuto, fu bombardata dalla flotta piemontese e saccheggiata dai Bersaglieri.
Da allora, nessun genovese fu reclutato in questo Corpo, cui la Città rimase ostile.
La Salis non conosce probabilmente l’esistenza di tale memoria patria.
Farebbe invece bene a partire da essa.
Per dire alla Meloni ed ai suoi collaborazionisti locali che Genova rifiuta i ricatti dei Governi centralisti, siano di Torino o di Roma.
Né la Città dimentica un passato in cui l’avarizia del suolo diede la spinta a conquistare il Mediterraneo, e poi – sulla rotta tracciata da Cristoforo Colombo – l’Oceano Atlantico.
Forse per una persona che ha fatto carriera a Roma, essendovi cooptata da Malagò, già galoppino della Sezione dei Parioli del Movimento Sociale questo è pretendere troppo.
Non c’è però altra strada se si vuole riconquistare la dignità di una Città e di una Regione ridotte al rango di una Colonia da sfruttare.
Provenendo dalla Brianza come Toti, e come i Sanitari collocati nei nostri Ospedali da Vittadini.
Mentre i nostri giovani laureati vanno a fare i camerieri all’estero.
Ci fu un tempo in cui i Genovesi presero la strada dell’America, ma oggi non c’è nessuna alternativa alla rivendicazione della loro dignità.
Che consiste nel dire di no al ricatto di Roma e del suo Governo.
La Salis potrebbe anche vincere malgrado il rifiuto di esprimere questa rivolta.
La sua vittoria, in questo caso, risulterebbe però inutile per dare a Genova ed alla Liguria un futuro dignitoso.
Rigettare il ricatto, anche a costo di perdere, porrebbe invece la prima pietra per il riscatto della nostra identità.

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Mario Castellano  06/05/2025
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