Concistoro, Chiesa e Scenario Globale: Analisi e Prospettive
Il Papa ha convocato a Roma tutti i Cardinali per un Concistoro, non dedicato alla cosiddetta solenne “creazione” di nuovi componenti del Sacro Collegio, bensì a una consultazione del “Senato della Chiesa”.
Tale consesso, superando ampiamente – malgrado i recenti decessi – i duecento componenti, costituisce pur sempre una platea abbastanza vasta e rappresentativa per fornire a Prevost una valutazione della situazione della Chiesa e del mondo, in cui trovano espressione tutte le voci e tutte le tendenze.
Soprattutto considerando che il Concistoro – a differenza del Conclave – riunisce anche i Cardinali non elettori in quanto ultraottantenni.
La riunione avverrà subito dopo l’Epifania, data conclusiva dell’Anno Santo.
Il Papa, essendo dedito fino ad allora agli impegni stabiliti dal suo predecessore.
Liquidata questa pendenza, dovrà decidere come orientare il suo Pontificato.
E si propone di farlo – questo è il dato più importante – applicando il metodo collegiale.
Perché dunque non riunire il Sinodo, continuando in una prassi ormai vigente nel governo della Chiesa, che si avvicina – mutatis mutandis – al modello parlamentare proprio delle democrazie rappresentative?
Francesco lo ha fondamentalmente seguito, accogliendo quelle proposte che l’Assemblea Permanente dei Vescovi gli trasmetteva e che il Papa riteneva attuabili immediatamente, mentre le altre venivano accantonate.
Si dirà che si trattava precisamente delle più spinose, ma anche delle più innovative: il superamento del celibato obbligatorio dei sacerdoti e l’istituzione femminile del sacerdozio.
È tuttavia interessante notare come Bergoglio non abbia rigettato le proposte riguardanti queste materie.
Tanto più in quanto esse provenivano da un episcopato – quello tedesco – che più contribuisce, insieme con quello statunitense, a sostenere le necessità finanziarie della Chiesa.
Il Papa ha avocato tali questioni, accantonandole sine die, ma non ha espresso neanche una parola di biasimo – o quanto meno di dissociazione – nei riguardi di chi le aveva sollevate, tra i quali è inclusa una parte della stessa Chiesa dell’America Latina.
Il Sinodo dell’Amazzonia ha posto il problema nei termini tragici che risultano dalla realtà.
L’assenza dei presbiteri in aree vastissime, dove le distanze sono aggravate dalla mancanza di mezzi di comunicazione, determina l’impossibilità per molti fedeli di morire nella Grazia di Dio non essendosi confessati, nonché l’inadempimento forzato dell’obbligo di partecipare alla Messa nelle festività di precetto.
Si possono quanto meno autorizzare i diaconi a consacrare e le suore a confessare e ad assolvere?
La domanda è rimasta fino ad ora senza risposta.
Probabilmente, il Papa anteriore ha voluto rimettere la questione al suo successore, il quale chiede consiglio ai Cardinali, cioè consulta una rappresentanza di tutta la Chiesa prima di decidere.
La nostra impressione è che i tempi stringano.
L’avvicendamento dei Papi ha segnato due volte – nel corso del Ventesimo secolo – l’imminenza delle guerre mondiali.
Nel caso della prima, si fece appena in tempo ad approfittare della temporanea neutralità dell’Italia, sede del Conclave, per eleggere Benedetto XV, prima che divenisse impossibile, per una parte almeno dei Cardinali, raggiungere Roma.
È dunque probabile che il Concistoro – se non assisteremo malauguratamente a un’estensione delle ostilità prima della data in cui è chiamato a riunirsi – debba constatare come non sia questo il momento più idoneo per intraprendere, tanto più imponendosi la prudenza e la gradualità, riforme destinate a causare un impatto fortissimo sulla comunità dei credenti.
Dividendo la Chiesa in un momento in cui è necessaria la sua coesione.
Non già perché si debba affrontare un nemico – come sollecitato da certi predicatori radiofonici che ne hanno bisogno per giustificare il proprio ruolo – bensì perché, in una situazione se non di aperto conflitto quanto meno di preparazione a tale prospettiva, la Chiesa è chiamata ad adempiere a due compiti urgenti:
uno consiste nel mantenere un minimo di coesione sociale, l’altro nel mantenere aperti spazi di dialogo tra le parti in contesa.
Bergoglio aveva ampliato notevolmente – e frettolosamente – il numero degli elettori del suo successore, inserendo nel Collegio dei Cardinali una crescente quantità di rappresentanti delle Chiese del cosiddetto “Terzo Mondo”.
Non solo delle più numerose e maggioritarie nel rispettivo contesto, come quelle dell’America Latina, ma anche di comunità estremamente minoritarie, impegnate per ciò stesso nel dialogo con i non cristiani.
Si è arrivati al punto che un Cardinale governa – in quanto unico Ordinario del suo Paese – soltanto ottocento cattolici.
Cioè un numero di anime inferiore a quello di certe parrocchie rurali dell’Occidente, in cui non c’è più neanche un parroco residente, bensì un sacerdote che arriva da fuori ogni domenica per celebrare la Messa.
Se Bergoglio ha agito – come affermano in molti – in base a un calcolo per così dire “elettorale”, ha evidentemente sbagliato.
Per manovrare il Conclave è bastato infatti provvedere con qualche generosa elargizione alle necessità di Chiese non soltanto povere di mezzi, ma anche povere di fedeli.
Siamo per questo in presenza di una restaurazione dei dogmi e delle discipline?
Questo avvenne nel 1978, ma si giustificava con la situazione dell’Europa: la parte occidentale del continente essendo assediata, e la parte orientale oppressa.
Oggi lo scontro che si prospetta non è tra l’Est e l’Ovest, bensì tra il Nord e il Sud.
Ed il Meridione del mondo non è meno credente, non è meno religioso rispetto al Settentrione.
Non si può dunque ignorare – né tanto meno reprimere – chi propone di mantenere aperto il dialogo.
Una Chiesa che bandisse una nuova Crociata, come fece Urbano II a Clermont nel 1095, potrebbe momentaneamente raccogliere il consenso dei fanatici, ma perderebbe definitivamente quello dei cattolici liberali.
I quali possono accettare che si rinvii – dato il pericolo di guerra in cui versa il mondo – la valutazione di alcune loro istanze, ma non accettare una nuova condizione di emarginazione.
Non ci riferiamo a quanto avvenuto durante la Guerra Fredda, bensì a quanto abbiamo vissuto anche personalmente fino all’avvento di Bergoglio.
I cattolici liberali, i fautori del dialogo con le altre Chiese e religioni, quanti accettano senza riserva il principio della laicità dello Stato, fanno parte della Chiesa e non meritano di essere discriminati.
Tanto più avendo sempre osservato i loro doveri, relativi tanto ai precetti quanto all’obbligo di conformarsi agli orientamenti del Magistero.
Che peraltro, praticandosi il metodo della collegialità – come pare intenzionato a fare il nuovo Papa – anche essi contribuiscono a definire.
Non mancano infatti tra i Cardinali quanti esprimono le loro istanze, che verranno fatte valere pienamente nel futuro, una volta superata l’attuale fase di emergenza.
Tanto più in quanto la Chiesa può sempre contare sulla nostra partecipazione attiva e convinta a tutto quanto viene messo in opera per promuovere il bene comune.
Una decisione già adottata dal Papa induce a sperare.
L’ex Santo Offizio ha posto termine alla “querelle” sull’opportunità di dichiarare la Madonna “Corredentrice”, Gesù Cristo essendo l’unico Redentore dell’Umanità.
Noi non sappiamo nulla di teologia, e non abbiamo dunque alcun titolo per pronunciarci sulla questione.
Constatiamo però che la frammentazione dei cosiddetti “gruppi ecclesiali” ha portato molti di questi soggetti a elaborare un loro proprio Magistero, manifestando per giunta la pretesa che la Chiesa vi si adeguasse.
Una delle espressioni di questo Magistero elaborato in separata sede riguardava precisamente la questione che ora è stata definita dalla Santa Sede.
Ci auguriamo in modo definitivo: “Roma locuta est, causa clausa est”.
O almeno così si spera.
La Congregazione competente ha evocato esplicitamente l’inopportunità di aggravare le divergenze con gli Evangelici.
L’ecumenismo ha peraltro due diverse espressioni: esiste il dialogo dottrinale, ma esiste anche l’impegno comune per la Giustizia.
Il pericolo di guerra viene oggi aggravato dalla possibilità che si trasformi in guerra civile, combattuta nel cuore stesso dell’Occidente, tra gli autoctoni e gli immigrati, in particolar modo gli immigrati musulmani.
Questo pericolo non risparmia l’America, cioè il Paese di origine del Papa, il quale deve certamente definire l’identità cristiana, sottolineando in primo luogo gli elementi comuni con le altre Chiese, senza però nulla concedere a chi intende questa identità come motivo di contrapposizione.
Se gli eventi porteranno a una ridefinizione dei confini interni, se si affermerà la necessità di una separazione tra soggetti diversi, ciò non dovrà portare alla ripetizione – su scala ben più ampia – di quanto avvenuto nell’ex Jugoslavia.
Che tale possa essere il risultato dell’attuale fase storica lo indicano molti sintomi.
Un tribunale dell’Austria ha stabilito l’obbligatorietà dell’esecuzione di una decisione pronunciata da una Corte arbitrale che l’aveva espressamente fondata sulla legge islamica.
La dottrina giuridica – come anche la stessa giurisprudenza – sta evolvendo verso una definizione del principio di eguaglianza non più riferito agli individui, bensì alle comunità.
Questo può portare alternativamente a uno scontro generalizzato, ovvero alla necessità di costituire entità statuali distinte.
In uno Stato di diritto, non si può infatti disapplicare il principio di eguaglianza tra soggetti diversi per sesso o per religione.
La Chiesa non può opporsi a questa tendenza senza rischiare di fornire i cappellani di una delle parti in contesa, come già fanno i seguaci di Lefebvre, che benedicono i comizi dell’estrema destra francese.
La comunità dei credenti può soltanto promuovere il dialogo e la ricerca del bene comune.
Bergoglio propose, parlando al Cairo, un’“alleanza” tra cristiani e musulmani.
Questo non comporta lo scoppio di una guerra, ma anzi ha lo scopo di evitarla.
L’alleanza conduce infatti a concordare una regola comune, che garantisca la pace e la fraternità tra tutti i popoli.
Giorgio La Pira paragonò la storia a un fiume, che nel suo corso descrive delle anse e a volte perfino retrocede, ma giunge inevitabilmente a questa meta.