Riferiamo il contenuto di due distinte conversazioni con altrettanti amici personali, rappresentanti della Generalità di Catalogna ed impegnati nella causa della sua indipendenza, con i quali abbiamo avuto l'onore di condividere i momenti convulsi del referendum popolare per l'autodeterminazione.
Non possiamo rivelare l'identità di questi dirigenti, e questo dà la misura della grave situazione in cui si trovano i patrioti della grande regione iberica, cui li uniscono tanti vincoli storici e culturali, nonchè la comunanza - in prospettiva storica - delle aspirazioni.
Come abbiamo già scritto, nel voto espresso domenica scorsa si è registrata una vittoria schiacciante dell'indipendentismo: le quattro liste che dichiarano di perseguire la separazione dallo Stato spagnolo hanno assommato il sessanta per cento dei voti. Si è dunque registrata la manifestazione della volontà popolare necessaria per l'esercizio dell'autodeterminazione. Tuttavia, proprio l'indiscutibilità di tale esito rivela la "impasse" nella quale si trovano i fautori dell'indipendenza. Non si tratta di una novità, dato che il diritto internazionale confligge su questo punto con l'ordinamento giuridico interno di molti Stati, il quale considera illecito il separatismo, anche quando si siano compiute le condizioni richieste dalla Carta delle Nazioni Unite per mutare lo "status" di un territorio.
Subito dopo le elezioni regionali, la procura nazionale spagnola ha promosso nuove azioni penali nei confronti di dirigenti della Generalità, mentre già sono instaurati i procedimenti a carico di quanti hanno partecipato all'organizzazione del referendum. Le richieste rivolte dal Governo di Barcellona alle autorità di Madrid comprendono in primo luogo una amnistia che permetta la scarcerazione dei dirigenti ancora sottoposti a misure restrittive della libertà personale, benchè temporaneamente rilasciati ed il ritorno degli esiliati, tra cui l'ex presidente Puigdemont, nonchè l'apertura di un negoziato per l'indizione di una nuova consultazione popolare concordata con lo Stato spagnolo. Si auspica che Madrid, come fece a suo tempo Londra, si impegni a rispettare il suo risultato.
Il primo ministro Sanchez ha però fino ad ora sostanzialmente rifiutato di aprire una trattativa: la sinistra ha fatto suo il dogma della intangibilità territoriale della Spagna, superato a suo tempo dalla Repubblica. Gli accordi stipulati nel momento della transizione democratica vincolano anche i socialisti e i comunisti. Il procuratore generale è nominato dal Governo, ed agisce in conformità con il suo orientamento. L'esecutivo sta dunque dietro le decisioni della "fiscalia", come l'arresto di un "rapper" catalano, accusato di vilipendio della Casa Reale (cioè di un reato di opinione), effettuato addirittura dalle "teste di cuoio", come se si fosse trattato di un terrorista.
Abbiamo domandato ai nostri amici perchè non ricercano un collegamento con le altre forze regionali indipendentiste dell'Europa occidentale. Ci hanno risposto che se ne astengono scrupolosamente, in quanto ciò modificherebbe a loro danno il rapporto di forze con la Spagna, rafforzando la sua alleanza con gli altri Stati nazionali. Qui sta il punto debole dei patrioti. I dirigenti ungheresi nel 1956, e quelli cecoslovacchi nel 1968 dichiararono che non intendevano esportare le loro esperienze negli altri Paesi dell'Est. Essi non volevano offrire alcun pretesto per un intervento straniero, ma con questa scelta si condannarono all'isolamento.
Lo stesso avviene oggi con la Catalogna, lasciata sola davanti alla repressione. La Generalità può conquistare l'indipendenza soltanto nell'ambito di un processo di superamento degli Stati nazionali che coinvolga tutta l'Europa occidentale. Come avvenne nel 1989 nell'Europa orientale. In attesa di quel momento, si può praticare soltanto la resilienza, preservando nella metapolitica la propria identità.
La Catalogna non sarà ispanizzata, come non vennero russificate le nazioni dell'Est. Questo esito era impedito dagli stessi principi dichiarati dal comunismo, come oggi lo impediscono quelli propri delle democrazie liberali. Ai tibetani, cui è proibito anche esprimersi nella loro lingua (come era proibito ai catalani sotto il franchismo), ed agli uiguri, chiusi nei campi di concentramento, va molto peggio. Noi italiani abbiamo aiutato i catalani cacciando Conte, che voleva importare in Europa il modello cinese. Ora il sedicente "avvocato del popolo" è tornato a Firenze, dove insegna agli studenti che un atto amministrativo può modificare un atto legislativo. Almeno, però, non mette più in pratica queste scemenze.

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Mario Castellano  20/02/2021
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