Su “La Repubblica” di domenica scorsa, Meir Ouziel pubblica un articolo dedicato ai rapporti storici tra Italia e Israele.
L’Autore prende le mosse dal fatto che gli Israeliti libici, frequentando dal 1911 le scuole istituite dalle Autorità coloniali italiane, si erano formati nella nostra cultura.
Ouziel tralascia però di ricordare che furono alcuni coraggiosi diplomatici e funzionari dell’Alitalia a porre in salvo molti componenti di quella Comunità quando si scatenò contro di essa nel 1967 la violenza dei fanatici arabi (allora non si era ancora manifestata quella di matrice islamista) come reazione alla “Guerra dei Sei Giorni”.
Grazie ad un ponte aereo allestito dal Ministero degli Esteri, gli israeliti libici poterono raggiungere l’Italia, dove alcuni rimasero, mentre altri partirono in seguito per altre destinazioni.
Per quanto riguarda l’originale della “Menorah”, occorre ricordare come in seguito alla conquista di Gerusalemme da parte di Tito, esso venne portato a Roma, insieme con l’Arca dell’Alleanza e con gli altri oggetti sacri custoditi nel Tempio.
Questo tesoro rimase nell’Urbe fino al saccheggio da parte dei Vandali, e da quel momento se ne persero le tracce.
Il luogo in cui era custodito – secondo gli storici – era l’Isola Tiberina, da dove i suoi custodi lo avrebbero gettato nel Tevere per evitare che venisse derubato.
Una campagna di ricerche archeologiche condotta nel letto del fiume, che dovrebbe naturalmente essere deviato, potrebbe forse chiarire il mistero, recuperando delle testimonianze storiche e religiose di valore ineguagliabile.

Questa idea riaffiora periodicamente: qualora fosse realizzata ed andasse a buon fine, quanto auspicabilmente ripescato verrebbe naturalmente restituito allo Stato di Israele.
Nell’Arco di Tito è raffigurato il trionfo delle truppe reduci da Gerusalemme, ritratte mentre portano precisamente l’originale della Menorah.
L’Autore dell’articolo non ricorda che la Comunità Israelitica di Roma solennizzò la proclamazione dell’Indipendenza di Israele nel 1948 sfilando precisamente sotto l’Arco di Tito, volendo significare con questo gesto che si trattava non già della costituzione, bensì della ricostituzione del proprio Stato.
Quanto alla Conferenza di Sanremo, che viceversa viene ricordata, possiamo aggiungere una notazione sconosciuta all’Autore.
In occasione del suo anniversario, l’Ambasciatore di Israele a Roma è stato ricevuto tra gli altri dai dirigenti dell’Associazione di Amicizia tra l’Italia ed il suo Paese, costituita a Ventimiglia per iniziativa della nostra amica Maria Teresa Anfossi, la quale tuttora la presiede.
Questo sodalizio è ospitato in una bellissima sede, in cui si svolgono periodicamente importanti iniziative culturali.
I locali, ampi ed accoglienti, svolgono anche la funzione di punto di appoggio per tutti gli Israeliti che transitano attraverso il confine tra Italia e Francia.
Da questo punto di vista, la sede dell’Associazione costituisce un caso più unico che raro, trattandosi di una istituzione israelitica gestita unicamente da Gentili.
A Ventimiglia, infatti, non risiede nessuna popolazione ebraica.
La Conferenza di Sanremo – purtroppo a lungo dimenticata perfino dagli storici – fu molto importante in quanto ne sortì il primo atto di Diritto Internazionale con cui le Potenze dell’Intesa diedero forma giuridica alla cosiddetta “Dichiarazione Balfour”, risalente a tre anni prima, che costituiva viceversa soltanto un atto politico.
Nell’ambito dei rapporti transfrontalieri tra la Provincia di Imperia ed il Dipartimento delle Alpi Marittime, che ha per capoluogo Nizza, sede di una importante e prestigiosa Comunità Israelitica, un ruolo importane è svolto dal dialogo interreligioso.
L’Associazione per l’amicizia tra Italia e Israele visita spesso il “Consistoire”, cioè l’Unione delle Comunità Ebraiche costituite oltre il confine, la cui competenza si estende da Mentone a Tolone, come anche al Principato di Monaco ed alla Corsica.
Il suo Presidente, Dottor Maurice Niddam, ricambia spesso le nostre visite venendo in Italia.
Recentemente, abbiamo avuto l’onore ed il piacere di propiziare lo stabilimento di rapporti di collaborazione tra la Comunità Israelitica di Nizza e la Comunità Islamica di Ventimiglia, reso possibile dagli “Accordi di Abramo”, di cui è parte anche il Marocco.
Tanto il Dottor Niddam quanto il suo pari grado musulmano, il Signor Taki, sono originari di questo Paese.
La Comunità Israelitica di Nizza è composta in buona parte da persone di origini magrebine, esattamente come quella islamica: la comunanza della lingua favorisce i rapporti, e si può anzi affermare che in questa zona si siano insediati tanto dei Nordafricani di religione islamica quanto dei Nordafricani di religione israelitica.
La comune origine e le comuni memorie costituiscono il miglior fondamento per edificare un futuro di pace su entrambe le sponde del Mediterraneo.

Padre Enzo Bianchi è un bergogliano “ante litteram”, e come tale non sospetto di simpatie per i tradizionalisti.
Se dunque questo religioso, intervenendo su “La Repubblica” di lunedì scorso, spezza una lancia in favore di alcune esperienze maturate in questo ambito, non lo fa certamente per convenienza, sia pure intellettuale.
Ci permettiamo di citarlo: “In Francia su una media di poco più di cento preti ordinati all’anno la metà provengono da movimenti e comunità tradizionaliste. Anche i monasteri tradizionali sono fiorenti, con una vita rigorosa e seria. Li conosco personalmente, sono andato e ho mandato alcuni miei fratelli a sostare presso il monastero di Barroux, dove io stesso sono rimasto edificato dalla qualità evangelica della vita che vi si conduce. Ora, come non riconoscere un posto anche per loro nella chiesa, con un atteggiamento inclusivo, con una volontà di vivere una comunione plurale?”
Se quella che Padre Bianchi chiama “comunione plurale” risultasse possibile, non soltanto si ripristinerebbe l’unità tra i Cattolici delle diverse tendenze, ma anche l’unità tra le varie Chiese Cristiane.
Che non è stata fino ad ora realizzata proprio perché le divergenze dottrinali devono essere superate affinché si ristabilisca la “piena comunione”.
Se invece si accetta il pluralismo delle interpretazioni della verità comune, l’unità si ripristina in modo automatico, anche se possono permanere norme disciplinari diverse.
Tanto per dare un esempio, nella stesa Chiesa Cattolica si ammette, nell’ambito dei riti orientali, l’ordinazione dello sposato, e dopo il reingresso di un settore degli ex Anglicani c’è addirittura un Ordinario uxorato (il che non si dà nemmeno nell’ambito delle Chiese Ortodosse).
Abbiamo l’impressione che Padre Bianchi, auspicando tra i Cattolici la “comunione plurale”, intenda proporla come modello anche per l’Unità delle Chiese.
Che potrebbe risultare – per la nota eterogenesi dei fini – dall’impossibilità di esercitare il cosiddetto “Ministero Petrino” dalla situazione che Padre Bianchi descrive nel suo articolo: le diverse Chiese Cattoliche “si contrappongono fino a delegittimarsi”.
La delegittimazione viene però soprattutto dai tradizionalisti, che in alcuni casi arrivano a non riconoscere valido il Sacramento dell’Eucarestia amministrato secondo il rito introdotto dopo il Concilio.
Le divergenze sono comunque destinate ad accentuarsi.
Padre Bianchi cita “la frattura tra Chiese europee e Chiese del Sud del mondo” riguardante le tematiche relative all’etica, ma questo dissenso viene contraccambiato con la diffidenza di molti cattolici europei nei riguardi di certi atteggiamenti ritenuti sincretistici dei loro correligionari latinoamericani.
Certe divisioni, inoltre, si producono anche laddove non vi sono divergenze di ordine dottrinale: pensiamo al fatto che gli Ucraini ed i Russi sono entrambi ortodossi, ma le due Chiese sono giunte allo scisma per questioni di ordine meramente temporale.
Le differenze sulle questioni teologiche sono state viceversa risolte nel passato quando le vicende politiche inducevano ad unirsi: vedi il caso del Concilio di Firenze, dove il futuro Cardinale Bessarione dimostrò che non vi era in realtà nessuna discrepanza tra Roma e Costantinopoli sulla famosa clausola del “filioque”.
L’accordo venne rinnegato dai monaci bizantini soltanto perché diffidavano del Vaticano più di quanto temessero gli infedeli.
Oggi, la pietà edificante che Padre Bianchi constata – peraltro giustamente – nei frati cattolici tradizionalisti francesi, così come la loro abbondanza di vocazioni, costituisce un fenomeno che si estende all’Italia: la metà degli ordinandi di quest’anno dell’Arcidiocesi di Torino saranno consacrati ad Albano Laziale, rendendo impossibile all’Ordinario di assegnarli ad incarichi pastorali.
La divisione che attraversa la Chiesa non è originata dalla teologia, bensì dall’identitarismo.
Questa situazione fa sì che anche l’autorità del Papa venga messa in discussione: il dissenso riguarda il fatto che Bergoglio si schierato con il Sud del mondo.
Dalla constatazione di questo fatto deriva l’arroccamento della Chiesa Occidentale in difesa della propria tradizione.
Che non viene intesa tanto in termini strettamente religiosi, ma comprende tutta quanta la nostra la nostra identità.
Un tempo si diceva che la pratica religiosa sarebbe ripresa quando ci fossimo trovati in guerra, cioè in una situazione in cui ci si raggruppa nel nome di quanto effettivamente unisce.
Quel momento è arrivato, ma l’effetto sulla Chiesa non risulta centripeto, bensì centrifugo.
In un precedente articolo, abbiamo ricordato quanto avvenne nel corso della Prima Guerra Mondiale: al Papa di allora, Benedetto XV, che interveniva per farla cessare, rispose in Francia Padre Sertillanges, il quale proclamò invece il dovere dei Cattolici di aderire alla “Union Sacrée”.

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Mario Castellano  17/6/2022
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