Il Secolo XIX venne fondato dai Fratelli Perrone, i quali non erano genovesi, ma seppero ugualmente stabilire una solida intesa con la borghesia imprenditoriale del nostro Capoluogo.
Il Secolo XIX venne fondato dai Fratelli Perrone, i quali non erano genovesi, ma seppero ugualmente stabilire una solida intesa con la borghesia imprenditoriale del nostro Capoluogo.
Oggi questo giornale si riduce alla edizione regionale ligure de La Stampa, come La Repubblica é ormai quella del Lazio.
Elkann deve soltanto decidere quando unificare formalmente le tre testate.
Se si volesse indicare quale orientamento ideologico abbia seguito – nel corso di tutta la sua storia - il giornale di Genova, si potrebbe dire che si è sempre collocato in un ambito liberale di Destra.
Non mancarono – data questa opzione di fondo – gli sbandamenti verso un indirizzo più radicale, e cioè verso scelte apertamente reazionarie.
Ci limitiamo a ricordare due momenti, caratterizzati il primo dalla opposizione al Centro – Sinistra, ed il secondo dalla ostilità verso le Amministrazioni Comunali che vedevano uniti – aprendo la strada ad analoghi sviluppi in altre importanti Città - i Comunisti, i Socialisti ed anche i Socialdemocratici.
Se il dialogo tra Il Secolo XIX e la Sinistra risultò sempre difficile, ciò fu tuttavia anche dovuto ad una chiusura settaria di questa parte politica, al prevalere di una cultura arretrata che impediva di cogliere quanto di nuovo stava maturando in altri settori.
Su di un punto, però, il quotidiano cittadino ed il Movimento dei Lavoratori coincisero sempre, e cioè in un atteggiamento fortemente rivendicativo e vertenziale verso il potere romano: nei confronti, cioè, delle Istituzioni dello Stato.
Da questo confronto dipendeva la sopravvivenza stessa di Genova come realtà economica.
Abbiamo rievocato mille volte come il suo destino fosse stato deciso dal Conte di Cavour, che vi era stato destinato quale giovane Ufficiale dello Esercito piemontese, ed a Genova aveva conosciuto la Marchesa Anna Giustiniani, morta suicida dopo la fine della sua relazione sentimentale con il Conte.
Il quale si era reso conto di come i Genovesi, in virtù della loro radice repubblicana ed indipendentista, fossero dei sudditi infidi di Casa Savoia.
Per sottometterli, occorreva renderli dipendenti, e Cavour decise di collocare a tal fine nella loro Città due settori industriali: quello siderurgico e quello delle costruzioni navali.
Entrambi potevano sussistere soltanto grazie alle commesse dello Stato.
I Genovesi divennero così, se non dei mendicanti, certamente dei sottoposti: prima nei riguardi di   Torino, e poi nei riguardi di Roma.
Nel dopoguerra, si sarebbero insediati nella Capitale due liguri, Paolo Emilio Taviani e Giorgio Bo: i quali, grazie al controllo delle Partecipazioni Statali, ebbero tutta la Liguria ai loro piedi; la condizione in cui versavano Savona e La Spezia era infatti sostanzialmente la stessa del Capoluogo.
La Città manteneva tuttavia una tradizione operaia antica e radicata, e i lavoratori erano sempre pronti a difendere con energia i loro diritti.
Infinite volte, piazza De Ferrari si riempì delle bandiere rosse portate dalle Delegazioni del Ponente.
Sul versante cattolico, il Cardinale Siri – sempre preoccupato del benessere anche materiale dei concittadini – passava ore al telefono con Roma, implorando che arrivassero le commesse dello Stato, e con le commesse il pane quotidiano.
Ai Genovesi è proverbialmente difficile darla a bere: quando veniva espresso un impegno, si vigilava dunque affinché fosse mantenuto.
In questa continua attività di rivendicazione, di interlocuzione e di controllo, tutti i soggetti politici, sociali e culturali della Città agivano solidalmente, pur persistendo sempre tra essi delle forti contrapposizioni ideologiche.
Il Secolo XIX non venne mai meno al suo compito, consistente non solo nello informare, ma anche – se necessario – nel criticare.
Per questo siamo desolati nel constatare il suo atteggiamento acquiescente (usiamo un eufemismo) nei confronti della Meloni.
Le cui promesse vengono esaltate come si trattasse di fatti compiuti, di acquisizioni riguardanti opere pubbliche vitali per la sopravvivenza stessa di Genova.
Se il Corriere della Sera intervista in ginocchio la Presidente del Consiglio, conseguenza del fatto che la grande borghesia lombarda dipende ormai dalle commesse pubbliche per tirare avanti, il ceto genovese degli operatori portuali e dei dirigenti delle Partecipazioni Statali si trova in una condizione di subordinazione possibilmente peggiore.
Esso è infatti ancora più privo di alternative.
Questo, però, non giustifica che il suo giornale si trasformi in un megafono della Presidente del Consiglio, e che inganni i concittadini omettendo di cercare un riscontro a quanto la Meloni va millantando.
Basta, per capire se vi sia stato un inganno, sapere leggere il Bilancio dello Stato.
Molti anni or sono, venne a Genova Prodi, allora Presidente del Consiglio.
Commentando la sua visita, un Deputato della Liguria rilevò con amaro sarcasmo come gli fosse stato mostrato soltanto il progetto per la ristrutturazione del Miramare: nulla più, cioè, di una mediocre speculazione edilizia.
Genova, ci disse con rassegnazione, è finita.
Prodi, però, ebbe almeno il coraggio di mostrare la faccia.
La Meloni, invece, è andata alla Scala, ma non al Carlo Felice.

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Mario Castellano  02/02/2023
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