La risposta israeliana all’attacco missilistico dell’Iran è arrivata...
La risposta israeliana all’attacco missilistico dell’Iran è arrivata, sia pure in ritardo, senza apparentemente provocare – almeno nell’immediato – una controreplica. La guerra in Medio Oriente ha nondimeno compiuto un passo avanti, che gli osservatori internazionali considerano irreversibile. Non già assumendo immediatamente le caratteristiche di uno scontro regionale generalizzato, bensì quelle proprie dei conflitti cosiddetti asimmetrici. Come fu a suo tempo quello dell’Indocina. Che venne combattuto da una parte dispiegando tutti gli strumenti della tecnologia moderna – rappresentati all’epoca dai bombardamenti strategici - e dall’altra parte i mezzi propri ella guerriglia. Che sono viceversa per così dire artigianali, e dunque poco costosi. Nel giorno che secondo il calendario israelitico segnava l’anniversario della strage dell’ano scorso, è stato compiuto a Tel Aviv un nuovo attentato mortale, facendo uso di un camion. Non risulta dunque possibile disarmare il nemico, salvo fermare la circolazione. Le guerre di lunga durata sono necessariamente guerre di logoramento. In cui vince, alla lunga, chi dispone di maggiori risorse. Tipico fu il caso del 1914 – 1918, quando la Germania e l’Austria crollarono a causa della fame determinata dall’isolamento territoriale, reso a sua volta possibile dalla superiorità navale dell’Intesa. Le parti attualmente in conflitto nel Medio Oriente possono invece contare ciascuna su di un retroterra talmente esteso che nessuna di esse può rimanere priva di rifornimenti. Lo “hinterland” dell’Iran – come ha dimostrato il Vertice di Kazan - arriva fino allo stretto di Bering, mentre l’Occidente, cioè essenzialmente gli Stati Uniti, può far giungere ad Israele tutto quanto è necessario per sostenere a tempo indeterminato il suo sforzo. Una delle parti dimostra però di aver capito che è possibile indebolire il fronte interno del nemico mediante la guerra psicologica, cioè con una propaganda volta a metterlo in cattiva luce. Ancora una volta – proprio come al tempo del Vietnam – sono le Università, cominciando nuovamente dai “campus” degli Stati Uniti, a prendere l’avanguardia del movimento “pacifista”. La protesta contro la guerra valse allora a demotivare una delle parti in conflitto. Quali furono gli argomenti ed i motivi che portarono a questo risultato? Il Vietnam, come prima l’Algeria - quando la Francia si scoprì priva di ragioni politiche e morali che giustificassero il proprio impegno e le proprie perdite - non era certamente decisivo per le sorti dell’Occidente. Che viveva dal 1945 il processo di decolonizzazione, compiuto – se lo si osserva retrospettivamente – pagando un prezzo relativamente basso (beninteso dal suo punto di vista) in vite umane. Gli unici luoghi dove prima la Francia e poi l’America decisero di combattere – contrastando il “mainstream” della storia – furono per l’appunto l’Indocina e l’Algeria. Aveva ragione, in ambedue i casi, chi constatava come la perdita di una lontana appendice coloniale non togliesse nulla né alla prosperità, né alla stabilità politica dei Paesi Occidentali. Che anzi venivano insidiate precisamente dall’inutilità dello sforzo intrapreso. C’è poi da considerare come la guerra del Vietnam o, meglio, la sua percezione in Occidente, fosse in quel tempo un riflesso della “Guerra Fredda”. Parigi difese la Algeria “Francese” – dimenticando che in realtà non era tale, trattandosi di un Paese arabo ed islamico - in quanto non la considerava una colonia, bensì un prolungamento oltremare. La presenza di un milione di cosiddetti “Pieds Noirs”, che dovettero essere ricollocati nella Madrepatria, costituiva la conseguenza dell’avere considerato quel Paese africano – a differenza di tutti gli altri compresi nel cosiddetto “Impero” (lo stesso nome già suonava anacronistico) – come una colonia di popolamento. Come il Nord America e l’Australia. Con la differenza che questi territori erano praticamente spopolati, per cui il genocidio dei nativi - per quanto naturalmente immorale - era risultato comunque possibile. In Algeria risiedevano un milione di europei – per lo più di origine spagnola, siciliana o maltese – e dieci milioni di Arabi. I quali, essendo maggioranza, avevano il diritto di esercitare l’Autodeterminazione. Questo diritto spetta naturalmente anche agli Ebrei. Per quanto vi sia ancora qualcuno che lo nega. Cadendo, per il fatto stesso di ammettere tale eccezione soltanto a loro danno, nell’antisemitismo. Nessuna soluzione del conflitto può viceversa prescindere dal riconoscimento agli Israeliti del Diritto all’Autodeterminazione. Il motivo per cui si deve solidarizzare con Israele è dunque precisamente lo stesso in base al quale era doveroso sostenere gli Algerini ed i Vietnamiti. La ragione per cui la Guerra di Indocina durò così a lungo, ed altrettanto minaccia di durare quella in Medio Oriente, fu l’innesco su di una causa nazionale – quale venne sempre considerata dagli abitanti di questi due Paesi – dei motivi propri della contrapposizione tra il Comunismo ed il Capitalismo. Che oggi è sostituita da quella tra l’Oriente musulmano e l’Occidente giudaico – cristiano. L’utopia comunista, che ebbe nell’idealizzazione del Vietnam il suo ultimo epifenomeno, spinse – più ancora della simpatia naturale verso un popolo in lotta per la propria emancipazione nazionale – le masse giovanili dell’Occidente ad identificarsi con questa causa. Nel 1975, quando il Vietnam conseguì con giusta ragione la propria unificazione, si scoprì la stessa verità, vissuta però in modo diverso da ciascuna delle parti in conflitto. Venne smentita clamorosamente la cosiddetta “teoria del domino”, invocata dalla propaganda americana, secondo cui i Vietcong non si sarebbero fermati a Saigon, avendo intenzione di sbarcare – si presume a nuoto – in California. Un popolo stremato da decenni di guerra ripiegò naturalmente – come avviene sempre in questi casi – sul compito immane della ricostruzione. I dirigenti di Hanoi, da parte loro, non interpretarono la loro vittoria in chiave internazionalista, bensì esclusivamente nazionale. E si appagarono dunque con la ricomposizione dell’Unità del Paese. Tre anni dopo, l’elezione del Papa polacco avrebbe ricordato che anche l’Unione Sovietica opprimeva dei popoli. Passò ancora un anno, e la Rivoluzione di Khomeini diede una nuova sponda alle rivendicazioni dei Palestinesi. Il conflitto – cui il Socialismo panarabo di Nasser e del “Baath” aveva conferito una debole e superficiale connotazione ideologica – si trasformò così progressivamente in scontro tra religioni. Cioè, tra identità. Mentre però le ideologie tendevano a cancellare – o quanto meno a sussumere – le differenze tra i popoli, l’identitarismo tende invece a radicalizzarle. Ciò nonostante, gli studenti tornano a manifestare: non più contro il cosiddetto “Imperialismo Americano”, bensì contro il Sionismo. Andando fino in fondo nel suo processo di radicalizzazione, questa nuova generazione finirà per aderire all’Islam, come la precedente finì per diventare comunista. Mentre però i Vietnamiti non avevano nessuna ambizione espansionista – né possedevano le risorse necessarie per sostenerla – gli Islamisti hanno di mira il dominio sull’Occidente. Per cui il conflitto minaccia di coinvolgerci. Anche perché in Europa vivono decine di milioni di Musulmani. Nessuno vuole riconquistare territori già sottomessi al Colonialismo, ma l’appoggio ad Israele risulta doveroso, dal punto di vista morale e giuridico, per almeno due motivi. Uno è costituito dal debito contratto a causa dell’Olocausto, l’altro dal rispetto del Principio di Autodeterminazione. Vi è inoltre il pericolo che la caduta (Dio non voglia!) di Gerusalemme produca quello “effetto domino” che nel caso del Vietnam costituiva soltanto una mistificazione della propaganda. Il conflitto, proprio essendo di natura identitaria, mette in gioco il destino non solo e non tanto di Gerusalemme, ma anche di Roma e di Parigi. Chi ancora si ostina ad ispirarsi alle ideologie – come i nostri dirigenti “democratici”, ma anche certe Autorità Ecclesiastiche – può soltanto barcamenarsi. Chi viceversa prende posizione per l’una parte o per l’altra si colloca in una prospettiva strategica. Il futuro appartiene dunque da una parte di chi diventa musulmano – come “Mohammed” Bensa – dall’altra parte a chi si dimostra capace di ritrovare le proprie radici. Mantenendosi alla larga dal confessionalismo, dalla teocrazia e soprattutto dal fanatismo, ma con piena convinzione. Ricordando che il principio della laicità dello Stato, negato dall’islamismo, costituisce anch’esso una conquista fondamentale della Civiltà giudaico – cristiana.