Il Professor Cacciari è una delle ultime menti lucide ancora in grado di capire che cosa sta maturando in Italia, e più in generale nell’Occidente.
Il Professor Cacciari è una delle ultime menti lucide ancora in grado di capire che cosa sta maturando in Italia, e più in generale nell’Occidente.
Nel suo recente articolo, pubblicato su “La Stampa” di Torino, l’ex Sindaco di Venezia rileva giustamente come la disaffezione dalla politica, che si è manifestata ancora una volta con l’astensione (per la prima volta superiore al cinquanta per cento in Emilia), dipenda in parte - anche se non esclusivamente - dalla constatata impossibilità di impedire la guerra.
Le proteste per il Vietnam furono imponenti, malgrado le sue vicende riguardassero solo molto relativamente l’Italia e gli altri Paesi dell’Occidente.
L’adesione alle manifestazioni – che si svolgevano peraltro anche negli Stati Uniti – si inquadrava però nel clima di quel tempo, dominato ancora dalle ideologie contrapposte: i Vietcong non erano considerati soltanto gli alfieri di una causa nazionale giusta, bensì soprattutto l’avanguardia di una “Rivoluzione Socialista Mondiale” ritenuta immancabile ed imminente.
Qualora fosse stato possibile domandare a questi partigiani se condividessero una simile interpretazione del loro impegno, probabilmente avrebbero risposto che esso era diretto piuttosto ad affermare l’Indipendenza e l’Unità del loro Paese.
Certamente Ho Chi Minh non mancava di ricordare a tutte le personalità della Sinistra mondiale che si recavano a rendergli omaggio il legame – testimoniato peraltro dalla sua stessa vicenda personale – con l’Internazionalismo Socialista: un ideale da cui senza dubbio egli era ispirato.
L’ideologia marxista costituiva però - per dei Comunisti che erano in realtà dei Nazionalisti, come in tutto il cosiddetto “Terzo Mondo” – il mezzo, lo strumento, piuttosto che il fine.
Lo sforzo della diplomazia vietnamita era peraltro diretto a contrastare la infondata “Teoria del Domino”, invocata dalla propaganda della parte avversa.
I rappresentanti di Hanoi affermavano infatti che i loro soldati si sarebbero fermati una volta raggiunti i confini del Vietnam, o tutt’al più quelli dell’ex Indocina Francese.
Il che avvenne puntualmente, non solo e non tanto perché era stato patteggiato nei negoziati di Parigi, quanto piuttosto per l’impossibilità – da parte di un Paese povero e stremato da decenni di guerra – di spingersi oltre.
Ciò non di meno, la Guerra del Vietnam segnò un momento importante della ritirata dell’Occidente dai territori già sottoposti al dominio coloniale.
La sua lettura in chiave rivoluzionaria in tanto risultava veridica ed efficace in quanto i Movimenti di Liberazione non miravano tanto ad affermare una ideologia, quanto piuttosto a riscattare le identità negate da una oppressione al contempo economica, politica e culturale.
Questo spiega perché la mobilitazione in favore del Vietnam non poté più ripetersi in seguito, limitandosi nei decenni successivi a coinvolgere solo i piccoli gruppi di simpatizzanti che si riuniscono intorno a tutte le cause esotiche, più o meno condivisibili.
Le manifestazioni contro l’intervento in Iraq non furono di lunga lena, anche perché risultava evidente la loro unilateralità.
Nessuno aveva infatti chiesto che i Sovietici si ritirassero dall’Afghanistan, per cui i “Talebani” riscossero qualche consenso solo quando volsero le armi contro gli Occidentali.
Se la protesta contro la guerra del Vietnam fosse stata motivata con ragioni giuridiche e morali, una analoga azione rivolta a far cessare i conflitti in Ucraina e nel Medio Oriente sarebbe viceversa giustificata piuttosto dal timore se non di un intervento diretto dell’Italia, quanto meno delle conseguenze che dovremmo scontare nel caso di un loro allargamento.
La gente, dunque, non manifesta contro queste guerre, ed anzi vede nella loro continuazione la prova dell’inutilità dell’impegno politico.
Il fatto che l’Italia fosse inserita nel sistema guidato dagli Stati Uniti d’America conferiva paradossalmente alla protesta di piazza per il Vietnam una certa efficacia: il principale partner della coalizione occidentale doveva infatti tener conto degli umori popolari espressi dai Paesi alleati.
Risultava infatti evidente la contraddizione tra l’ispirazione dichiarata dall’Alleanza Atlantica – cioè, la difesa della libertà dei popoli – ed il contrasto di questa aspirazione quando veniva espressa da un Paese non appartenente all’Occidente.
L’opposizione di massa alla guerra in Ucraina, anche se potesse esprimersi, risulterebbe invece del tutto inefficace.
Non solo perché non si collegherebbe con nessuna ideologia transnazionale, quale fu a suo tempo il Socialismo, quanto perché si affrontano in questo conflitto – come anche in quello del Medio Oriente – diverse identità: nell’un caso nazionali, e nell’altro religiose.
L’unico movimento di opposizione alla politica di Israele trova la propria motivazione in un pensiero anch’esso identitario – la cosiddetta “Cultura Woke” - che contesta l’intera Civiltà Occidentale.
Suscitando però la reazione contraria di quanti ancora in questa Civiltà si riconoscono.
I quali hanno prevalso non tanto perché rappresentano la maggioranza, quanto piuttosto perché hanno conquistato l’egemonia.
Il risultato elettorale favorevole a Trump dimostra come il sentimento popolare dell’America profonda rigetti il multiculturalismo.
Che si trova ristretto nelle zone urbane, dove la popolazione è multietnica.
È vero, peraltro, che nella nostra Città le manifestazioni in favore della Palestina hanno avuto successo.
Dimostrando però tanto la capacità di mobilitazione e la coesione della Comunità islamica quanto la scarsa adesione della popolazione autoctona.
La quale non manifesta in quanto l’azione politica che le viene proposta non ha nessun rapporto con la sua identità.
Fino a quando questa identità non sarà in gioco, in quanto si percepirà la sua oppressione e si sentirà il bisogno di riaffermarla, dandole una espressione politica, il fenomeno di disaffezione denunziato dal Professor Cacciari è destinato quindi a perpetuarsi.
Ciò non significa, beninteso, che l’attuale Governo goda di un consenso.
Significa piuttosto che l’Opposizione non riesce ad indicare alla gente i motivi seri e profondi del dissenso.
Nessuno, infatti, rileva come l’identità italiana invocata dalla Meloni sia da una parte una invenzione intellettuale, e dall’altra parte una imposizione ideologica.
Giustamente, la neoeletta “Governatrice” dell’Umbria – persona non certo radicale, né negli obiettivi, né nella prassi - ha detto che i suoi concittadini non tollerano più gli sputi in faccia.
Il riferimento era naturalmente alla maleducazione del Sindaco Bandecchi, il quale per l’appunto ha la cattiva abitudine di sputare in faccia ai propri amministrati, ma il discorso riguarda più in generale la prassi consistente nell’imporre nuovamente i “Podestà Forestieri”.
La Sinistra non ha saputo suscitare in Liguria lo stesso orgoglio e lo stesso spirito di rivolta che si è manifestato altrove in difesa dei nostri Campanili.
“Suonate pure le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane!”, disse Pier Capponi a Carlo VIII.
Orlando non è stato capace di far suonare le nostre campane per chiamare alla rivolta contro il nuovo “Gauleiter” imposto da Milano.
Condannando i Liguri a rimanere nella loro condizione di sudditanza.
Anche il Partito che ha espresso il Candidato dell’Opposizione ci aveva peraltro spedito a suo tempo un “Gauleiter”, in questo caso proveniente dall’Emilia.
Per svolgere un compito di corruttore, precisamente come fa Bucci quando compra – per giunta al prezzo di un pezzo di pane – la Sanità della Liguria.
Un vecchio combattente della Resistenza ammoniva: “Non ci sono Liberatori, ci sono uomini che si liberano”.
Si annunzia ad Imperia una azione volta a rovesciare l’attuale Sindaco, intrapresa da chi a suo tempo affermava erroneamente la possibilità di destituirlo in quanto ineleggibile.
I nostri concittadini non guadagnerebbero però nulla qualora Claudio Scajola venisse sostituito da un “Corriere dello Zar”; ovvero da un “Revisore”, come quello descritto da Gogol.
Inviato, in entrambi i casi, dalla Corte Imperiale di Mosca.
Ci permettiamo di ritornare sul tema sollevato dal Professor Massimo Cacciari, che lamenta con ragione la frustrazione provata da chi non è in grado di fermare le guerre in corso.
Per cui si allontana dall’impegno politico, ritenendolo inutile.
La Sinistra si è sempre opposta alla guerra, a partire da quanto avvenne quando l’Italia – tra il 1914 ed il 1915 – si divise tra favorevoli e contrari all’Intervento.
Il motivo dell’opposizione dei Socialisti all’ingresso nel conflitto mondiale radicava nella loro analisi politica ed economica.
La guerra era ritenuta lo strumento attraverso il quale la Borghesia mirava da una parte ad ampliare i propri profitti, approfittando delle commesse dello Stato, e dall’altra parte a soffocare – con il pretesto della necessaria disciplina collettiva – le rivendicazioni della Classe Operaia.
Non mancava però nella Sinistra una componente – minoritaria tanto nell’ambito di questo schieramento politico quanto nel fronte interventista – che si mostrava viceversa propensa ad una adesione dell’Italia all’Intesa.
Questo settore si ispirava in primo luogo al Risorgimento, considerando il significato progressista dell’Unità Nazionale, che aveva permesso di abbattere le autocrazie incarnate dagli Antichi Stati, ma soprattutto si collegava con i movimenti indipendentisti attivi nell’ambito degli Imperi.
Sostenere la loro causa significava affermare l’ideale della sovranità popolare quale fondamento degli Stati in luogo del principio di Legittimità, incarnato dall’Austria, dalla Germania, dalla Turchia e dalla Russia.
La cui sconfitta permise di realizzare le aspirazioni di molti popoli europei.
Più in generale, fu precisamente a partire dal 1914 che cominciò a manifestarsi il grande movimento di emancipazione che tuttora continua in tutto il mondo.
La Guerra poteva svolgere un ruolo progressivo o viceversa reazionario a seconda del punto di vista da cui la si considerava.
È indubbio che il Movimento dei Lavoratori abbia subito una fase di repressione, rassegnandosi in alcuni casi a subire l’egemonia del “nemico di classe” con l’accettazione del cosiddetto “dovere patriottico”.
La Socialdemocrazia tedesca votò nel Parlamento di Berlino in favore dei cosiddetti “Crediti di Guerra”, che per sostenere le Forze Armate sequestravano una parte delle retribuzioni, cancellando le anteriori conquiste salariali.
L’alternativa a questa scelta era costituita da quanto proposto nella riunione di Zimmerwald dell’Internazionale Socialista solamente dal Partito russo, e cioè trasformare la guerra in un conflitto civile.
Sia pure con ritardo, i Bolscevichi avrebbero messo in pratica questo disegno, ritrovandosi al potere nel loro Paese nel momento della cessazione delle ostilità in Europa.
La scissione tra i Socialdemocratici ed i Comunisti, sancita con la costituzione della “Terza Internazionale”, si era in realtà già consumata precisamente a Zimmerwald.
Il Partito Socialista Italiano non seppe scegliere tra le due alternative, ed escogitò la formula del “Né aderire, né sabotare”.
Che gli procurò tanto le conseguenze negative derivanti dall’opposizione all’Intervento – il Fascismo si sarebbe infatti posto in continuità con questa scelta – quanto quelle causate dalla pratica accettazione della guerra.
In realtà, il Partito di Turati vide confermata da quanto avvenuto nel Maggio del 1915, l’egemonia della Borghesia.
Che portava il Paese verso una scelta conforme con i propri interessi senza che la Sinistra potesse condizionarla.
I conati rivoluzionari successivi alla “Vittoria” non fecero che confermare questa linea di tendenza: il rifiuto del riformismo, accompagnato dalla velleità e dall’inconcludenza delle agitazioni culminate con l’occupazione delle fabbriche, portarono alla fine delle stesse “Libertà Borghesi”, oltre che alla cancellazione di tutte le anteriori conquiste ottenute dal Movimento dei Lavoratori.
Oggi viviamo una situazione che ricorda, per alcuni aspetti, quella vissuta nel 1915.
La guerra, in quel momento, era già scoppiata.
Il conflitto tra i favorevoli ed i contrari all’Intervento dipendeva dal fatto che nessuna alleanza costringeva l’Italia a prendervi parte.
La Triplice Alleanza con l’Austria e la Germania, stipulata fin dal 1882 per conferire al nuovo Regno un’adeguata collocazione internazionale, avrebbe dovuto determinare addirittura l’entrata in guerra contro la Francia.
Tanto che Esercito era schierato, in adempimento degli obblighi derivanti dai Trattati, sul confine delle Alpi Occidentali.
Lungo la ferrovia da Genova a Ventimiglia, accanto ad ogni galleria esisteva il cosiddetto “focolaio”, un piccolo vano chiuso con una porta blindata dove il Presidio manteneva gli esplosivi destinati a demolire il manufatto in caso di ostilità con il Paese confinante.
Quando – poche settimane prima del Ventiquattro Maggio – Sonnino stipulò il “Protocollo di Londra”, ponendo le basi di quanto sarebbe stato deciso formalmente nei giorni successivi a seguito delle manifestazioni fomentate dall’Intesa, le Forze Armate dovettero essere precipitosamente spostate verso l’altro confine.
Dove non esistevano nemmeno le caserme necessarie per alloggiarle.
Gli stessi piani di guerra dovettero essere riscritti.
Oggi le alleanze in cui l’Italia si trova inserita rendono inevitabile ed automatica la nostra partecipazione ad un conflitto, tanto nel caso venga determinato da un allargamento della guerra in Ucraina quanto nel caso di un aggravamento della situazione nel Medio Oriente.
Di fronte a questa prospettiva, è naturalmente giusto e doveroso compiere ogni sforzo in favore della pace.
Quale decisione dovremo però adottare se malauguratamente le ostilità ci dovessero coinvolgere?
Oggi la Sinistra non si basa più sull’analisi in base alla quale si oppose all’Intervento nel 1915.
Non si ragiona in termini di capitalisti bramosi di procurarsi maggiori guadagni e di operai sottoposti ad un peggiore sfruttamento.
Si identifica tuttavia meccanicamente nell’Occidente il soggetto guerrafondaio, cui imputare ciascun contenzioso internazionale ed ogni suo aggravamento.
Questo schema risulta più difficile da applicare alla Russia e all’Ucraina, mentre è più agevole indicare Netanyahu come responsabile della guerra di Gaza, dimenticando del tutto quanto accaduto il fatidico Sette Ottobre.
Non esiste più peraltro l’Internazionale Socialista, che aveva incarnato a suo tempo la causa del pacifismo: salvo praticamente dissolversi quando i diversi componenti si scoprirono patrioti francesi, inglesi o tedeschi, e si comportarono di conseguenza.
La scelta non è tra una astratta ragione ed un altrettanto astratto torto, ma su che fare in funzione di due obiettivi concreti.
Uno consiste nella necessità di non compromettere i diritti civili.
In questo campo, tanto la cosiddetta “epidemia” quanto le vicende successive hanno dimostrato la fragilità dei presidi giuridici stabiliti per la loro tutela.
Non vi è alcun dubbio sul fatto che un personaggio come la Meloni considererebbe una guerra come la miglior occasione per coronare il proprio progetto autoritario.
Basato però anche su acquisizioni – valga come esempio il cosiddetto “Decreto Rave Party” – anteriori al suo avvento al Governo.
Non essendo possibile un suo rovesciamento, l’atteggiamento dell’Opposizione deve basarsi sulla necessità di fare i conti con la permanenza al potere di forze certamente inaffidabili.
Occorre dunque mantenere vigenti, per quanto riguarda la politica interna, tutte le garanzie civili e personali, senza però mettere in discussione gli obblighi internazionali.
In campo internazionale, la tendenza verso l’affermazione dei diritti dei popoli è irreversibile, ed i conflitti possono soltanto accelerarla.
In quanto chi vi partecipa esige immancabilmente la loro affermazione.
L’attuale Governo italiano tenterà di imporre delle misure restrittive, ma non può ottenere la “reductio ad unum” delle diverse identità e dei diversi soggetti politici e sociali presenti nell’ambito del nostro Paese.
Il risultato elettorale dell’Emilia e dell’Umbria dimostra quanto forte è la resilienza di queste istanze, quando trovano una rappresentanza politica adeguata.
Questo è mancato nel caso della Liguria, ma per fortuna non altrove.
Quale che sia l’evoluzione della situazione internazionale, tanto i movimenti politici quanto le espressioni delle diverse realtà locali saranno in grado di preservarsi per raggiungere – in prospettiva storica – i loro obiettivi.