In occasione del recente Convegno di Studi celebrato a Roma e dedicato alla figura del Presidente Giorgio Napolitano ...
In occasione del recente Convegno di Studi celebrato a Roma e dedicato alla figura del Presidente Giorgio Napolitano, si è dato il giusto risalto all’opinione espressa in molte circostanze ufficiali dall’allora Capo dello Stato in merito alla valutazione storica dell’Unità Nazionale.

Lo studioso incaricato di esaminare i discorsi del Presidente della Repubblica ha rilevato come, sulle vicende che condussero alla costituzione dello Stato Unitario, si siano manifestate tre diverse tendenze, espressione ciascuna di una particolare corrente di pensiero.

Esisteva – ed esiste tuttora – la cosiddetta scuola "Neo-Borbonica", che legge il Risorgimento in chiave di conquista territoriale di una colonia interna. L’oratore ha omesso di rilevare come, su questa lettura della storia moderna d’Italia, confluiscano non soltanto studiosi di radice legittimista, ma anche storiografi di tutt’altra provenienza intellettuale. Costoro, tuttavia, trovandosi in posizione minoritaria e marginale nell’ambito dell’intellettualità di sinistra – e soprattutto nel Partito Comunista – sono stati messi da tempo a tacere.

Questa interpretazione dell’Unità rimane dunque appannaggio principalmente dei "Neo-Borbonici", i quali, tuttavia, si limitano spesso alle rievocazioni folcloristiche, che pure non mancano. Su di esse, tuttavia, non si può appiattire la ricerca condotta dagli studiosi che redigono "L’Alfiere" e che si incontrano ogni anno a febbraio in occasione del Convegno di Gaeta per fare il punto sulle rispettive ricerche.

Risulta comunque chiaro come un Presidente della Repubblica Italiana – anche a prescindere dalle sue personali convinzioni, ereditate nel caso di Napolitano da quelle proprie di Giorgio Amendola, fautore di una lettura del Risorgimento come grande fenomeno progressivo – non avrebbe mai potuto accettare delle tesi che, in definitiva, delegittimano la compagine statuale che egli deve guidare, e con essa la carica da lui occupata.

C'è poi l’interpretazione che del Risorgimento aveva dato Gramsci, dalla quale il comunista Napolitano dissentì in modo esplicito, giungendo a classificarla come una manifestazione di quell’"ideologismo" proprio del suo stesso partito, che il Presidente avversò nel corso della sua intera vicenda pubblica. Fino a vedere trionfare le proprie tesi nel momento stesso in cui – compiuto il processo di revisione ideologica – si giunse al rigetto completo non soltanto del pensiero marxista, ma anche delle sue applicazioni alla storiografia nazionale.

Gramsci vedeva nella costruzione dello Stato Unitario il coronamento del disegno concepito dalla borghesia italiana, mirante ad affermare la propria egemonia sulla società del nostro Paese. Era dunque logico che la critica svolta dal pensatore di Ghilarza non distinguesse tra l’autoritarismo centralistico proprio di Casa Savoia e il disegno di Cavour, il quale, essendo – nella visione della sua opera politica propria di Napolitano – un coerente liberale, avrebbe valorizzato, nell’ambito del nuovo Stato, la funzione propria del Parlamento, cioè dell’organo per eccellenza rappresentativo della volontà popolare.

Lasciando da parte il fatto che il ruolo di questa istituzione, pur essendo indubbiamente Cavour maestro nel dominio del cosiddetto "gioco parlamentare" – come sarebbe stato dopo di lui l’altro grande protagonista della politica unitaria, cioè Giolitti – era pur sempre espressione esclusiva di una particolare classe sociale, come dimostra il fatto che soltanto nel 1912 si sarebbe introdotto il suffragio universale, rimanendo intatto fino a quel momento il carattere magnatizio dello Stato.

Quanto conta è che la funzione del Parlamento – pur risultando certamente importante nella concezione e nella prassi politica di Cavour (il quale non a caso aveva esordito nel 1852 come inventore del cosiddetto "Connubio" con Rattazzi, cioè dell’antenato del Centro-Sinistra) – non usciva dalla completa complementarietà delle Camere alla persecuzione degli interessi della borghesia.

Napolitano, tuttavia, essendo sempre stato un liberale – che però aveva trovato nel Partito Comunista lo strumento ideale per allargare la base popolare dello Stato – fece propria la lettura della storia unitaria espressa da Benedetto Croce e da Rosario Romeo. Tanto più che il futuro Presidente della Repubblica era legato a "Don Benedetto" dalla comune origine napoletana, facendo parte – sia pure indirettamente – del novero dei suoi discepoli.

Se però tanto Croce quanto Romeo – pur non essendo mancata una certa partecipazione alla politica attiva da parte del grande studioso siciliano – erano degli storiografi, Napolitano era viceversa uno statista, il cui disegno si basava per l’appunto sull’apprezzamento della trasformazione dello Stato da assoluto in costituzionale, avvenuta con la promulgazione dello Statuto Albertino e poi con la sua estensione alle varie parti d’Italia. Di qui l’idea che l’Unità costituisse indiscutibilmente un fatto progressivo.

Certamente Napolitano non poteva nascondere che lo Stato italiano avesse mantenuto a lungo un carattere magnatizio, espresso dal cosiddetto "suffragio per censo". Ciò nondimeno, il Presidente partiva dal presupposto della possibilità di riformare lo Stato liberale, e dunque parlamentare. Questa possibilità non si realizzava soltanto con l’estensione del suffragio, ma anche mediante la partecipazione alla vita politica delle masse popolari, organizzate dapprima nel Partito Socialista e poi nel Partito Comunista.

Il pensiero politico di Napolitano è stato dunque sempre – e coerentemente – di matrice riformista, basato sulla duplice convinzione: da un lato, della possibilità di trasformare in senso democratico lo Stato – ecco il motivo per cui Napolitano non fu mai leninista – e, dall’altro, dell’opportunità di fare del suo partito una grande forza riformista.

Che cosa non quadra in questa visione – certamente coerente – della vicenda nazionale? Il fatto che, a un certo punto, si fosse instaurato il Fascismo, che non si poteva ridurre a un incidente di percorso, come lo avevano classificato altri liberali, in primo luogo Luigi Einaudi nel famoso "Heri dicebamus".

Se però gli antifascisti avevano perduto la loro battaglia negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra – anche questo evento era ritenuto progressivo da Napolitano, avendo significato l’identificazione del popolo nel nuovo Stato – ciò era avvenuto in quanto (lo diciamo con una sintesi che può comportare una forzatura) gli oppositori di Mussolini non erano stati abbastanza riformisti.

Questa visione ha a sua volta un presupposto che si può così riassumere: lo Stato liberale non era inevitabilmente portato a degenerare nel completo autoritarismo. Se questo avvenne, fu perché le possibilità di una sua riforma ed evoluzione in senso democratico non vennero colte.

L’oratore incaricato di commemorare Napolitano ha anche sottolineato come il Presidente – pur rigettando logicamente la degenerazione tribale del nazionalismo fatta propria dal regime di Mussolini – ritenesse in sé positivo il sentimento patriottico ispiratore del Risorgimento.

A questo punto, però, formuliamo la nostra modesta obiezione. Napolitano – per sua fortuna – non ha vissuto abbastanza per assistere al fallimento del disegno di riforma in senso democratico dello Stato, intrapreso a partire dalla Resistenza, che il Presidente – in dissenso dal suo stesso partito – non volle mai considerare "tradita", ritenendo viceversa che tutta la vicenda postbellica fosse stata un "continuum" positivo e progressivo.

Se l’avvento del Fascismo non rivela un carattere intrinsecamente e ineluttabilmente autoritario dello Stato unitario, come si spiega il ritorno all’autoritarismo – e in particolare al centralismo – cui oggi assistiamo? La malattia – anziché infantile – non si sta forse rivelando cronica?

Una sola valutazione vogliamo esprimere per fondare il nostro pur rispettoso dissenso dal Presidente: se i socialisti e i comunisti degli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra diedero inconsapevole alimento al Fascismo con il loro estremismo e con la loro tendenza a un movimentismo inconcludente, questo fu precisamente l’errore che si tentò di evitare dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Questo timore portò Berlinguer a teorizzare il "compromesso storico", cui Napolitano aderì nel modo più pedissequo, in quanto la sua realizzazione – peraltro mancata – avrebbe provato la "maturità" acquisita dalla sinistra e avrebbe favorito il suo inserimento nello Stato. Che però – se si eccettua la magistratura meritatamente conferita allo stesso Napolitano, e da lui esemplarmente esercitata – significò soltanto l’inserimento dei comunisti nel cosiddetto "sottogoverno".

Il ritorno a un modello autoritario riapre – tanto tra gli storici quanto tra gli operatori politici – il dibattito sull’Unità Nazionale, che Napolitano volle considerare chiuso, sia pure con la buona fede propria di chi vede realizzato – nella propria stessa vicenda personale – un disegno che in realtà non si era compiuto. E che anzi è completamente fallito, minacciando di trascinare nella sua stessa rovina quello Stato unitario in cui il Presidente ha creduto in buona fede.

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Mario Castellano  03/08/2025
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