Nel 1922, pochi mesi prima della “Marcia su Roma”, Mussolini e Balbo pranzarono insieme presso l’elegante ristorante “Cinzano” di Milano.
Nel 1922, pochi mesi prima della “Marcia su Roma”, Mussolini e Balbo pranzarono insieme presso l’elegante ristorante “Cinzano” di Milano.
Il “Ras” dell’Emilia, avendo espugnato uno ad uno tutti i comuni capoluogo della Valle Padana, intendeva scatenare l’offensiva finale per la conquista della capitale.
Mussolini lo frenò, in quanto mancava ancora la seconda città più importante d’Italia, cioè la stessa Milano.
Presa la “Capitale Morale”, nulla e nessuno avrebbe più potuto interporsi sulla strada dei fascisti.
Poco dopo, gli squadristi scatenarono l’assalto a Palazzo Marino.
Con dei risvolti tragicomici: il sindaco socialista Angelo Filippetti, prevedendo quanto sarebbe accaduto, aveva fatto barricare il portone del municipio.
Non potendolo sfondare, i fascisti si servirono della scala mobile dei pompieri e penetrarono nell’edificio attraverso una finestra del “piano nobile”.
Ora la storia si ripete, sia pure rovesciando l’ordine temporale degli eventi: il governo Meloni, ormai consolidato a Roma, parte alla conquista di Milano.
Quando un suo esponente – scelto probabilmente da La Russa – si insedierà sullo scranno di sindaco, il nuovo potere potrà dirsi consolidato.
Con questo, non intendiamo assolutamente insinuare che la procura ambrosiana abbia agito in nome e per conto della presidente del Consiglio.
L’aspetto più grave della vicenda attuale consiste infatti precisamente nel fatto che la sinistra ha segnato un’autorete.
Milano è sempre il laboratorio della politica nazionale.
All’inizio degli anni Sessanta, il Partito Liberale annunciò la propria uscita dal governo se si fosse costituita una giunta di centrosinistra nel capoluogo della Lombardia.
Quando ciò avvenne, gli eventi che avrebbero portato all’instaurazione del primo esecutivo nazionale appoggiato dai socialisti conobbero un’accelerazione.
La Democrazia Cristiana decise in questo senso nel congresso di Napoli e subito dopo i ministri socialdemocratici e repubblicani si dimisero, annunciando che non avrebbero ripreso i loro posti se la maggioranza non fosse stata allargata ai seguaci di Nenni.
Craxi iniziò la sua personale “Marcia su Roma” – confermando il detto di Marx secondo cui la storia si ripete, succedendo però alla tragedia la farsa – conquistando la Federazione Socialista di Milano.
Una curiosa nemesi storica volle che le sue ruberie venissero scoperte iniziando proprio dal Pio Albergo Trivulzio.
“Tangentopoli” segnò la fine del sistema di potere sorto nel momento stesso in cui il fascismo era caduto.
Ora il nuovo regime si consolida definitivamente con la conquista di Milano, che qualche giorno fa era stata preannunciata dal figlio di Berlusconi, evidentemente informato di quanto stava bollendo in pentola.
L’opposizione ha fallito non solo e non tanto essendosi lasciata corrompere, quanto piuttosto perché il suo maggiore partito ha dimostrato di non essere democratico, smentendo così la sua stessa denominazione.
Per quanto riguarda gli aspetti penali della vicenda, è da notare come sia ritornata prepotentemente sulla ribalta politica una figura in auge negli ultimi anni della Prima Repubblica: quella del “brasseur d’affaires”.
Che nella maggior parte dei casi risulta essere un ciarlatano e un millantatore.
I craxiani inondarono a suo tempo l’Italia di personaggi che sarebbero stati curiosi e originali se non si fosse trattato di delinquenti.
Costoro giravano la provincia vantando di essere reduci da una cena con il re dell’Arabia Saudita e di avere in calendario un imminente abboccamento con il presidente degli Stati Uniti.
In genere proponevano l’acquisto di petrolio, anche ai poveretti che tutt’al più lo usavano per ricaricare l’accendino.
Alla fine si accontentavano di qualche modesto affare, al livello degli “imbonitori di piazza” che si esibiscono nelle fiere.
Un cognato (peraltro risultato autentico) di Craxi riuscì a rifilare al nostro amico Osvaldo “Braccioforte” Martini Tiragallo un servizio di piatti di portata che, essendo tutti storti, non si potevano neanche impilare.
Manfredi Catella non era invece un millantatore, dal momento che rappresentava effettivamente gli sceicchi del Qatar.
Quanto agli uomini della giunta – sindaco, assessori e funzionari – non gli fu difficile comprarli, dal momento che non mancavano certamente i soldi per “ungere le ruote”.
L’uomo era cresciuto sulle ginocchia di Ligresti, di cui suo padre fu stretto collaboratore.
Tanto sarebbe bastato per mettere in guardia Sala, la cui faciloneria – dimostrata in occasione dell’Expo – è pari soltanto alla sua estraneità rispetto alla sinistra, che lo ha incoronato grazie alla sua fama di “manager” internazionale.
Pur trattandosi di un piccolo industriale della Brianza, munito della classica “fabbrichetta”.
Peccato sia morto Gino Bramieri, che lo avrebbe caratterizzato molto bene, il soggetto essendo simile al “Carugatti”, macchietta del “Cummenda” lombardo immortalata dal comico milanese.
Poiché comunque vale sempre il principio di presunzione di innocenza, limitiamo la nostra analisi al significato politico della vicenda.
Quando anche tutti gli imputati fossero assolti con formula piena, ci domandiamo in primo luogo se un’idea dello sviluppo urbanistico di Milano basata sulla trasformazione della città in un’unica grande zona residenziale destinata ai ceti più abbienti possa corrispondere con l’ispirazione e con il programma di una forza politica che si ispira a Filippo Turati.
In secondo luogo, vorremmo sapere se questa scelta, compiuta dalla giunta comunale, sia mai stata discussa in una qualsiasi istanza rappresentativa interna del partito.
Essa ha peraltro coinvolto perfino l’estrema (!?) sinistra.
Trattandosi della capitale economica e “morale” (?) dell’Italia, avrebbe dovuto dire la sua anche la dirigenza nazionale del partito, che ora non invita Sala a dimettersi, ma neanche lo presenta come un innocente perseguitato, accumulando gli svantaggi derivanti da ciascuna di queste due opzioni.
La Schlein dimostra tutta la sua inadeguatezza: si tratta di un’esibizionista, capace solo di partecipare ai cortei (preferibilmente degli omosessuali) e di gridare slogan nei comizi.
La realtà è che al Nazareno non si sa assolutamente nulla di quanto avviene nelle “cento città” d’Italia.
Anni or sono, venimmo accolti al cospetto del responsabile del “Territorio”, il quale esordì domandandoci in quale regione si trovasse Imperia.
Nel tempo in cui vigeva il “centralismo democratico”, mutuato dai bolscevichi, era bastato garantirsi l’appoggio del segretario della federazione perché la consorteria della selvaggina non solo fosse lasciata libera di fare ciò che le conveniva, ma anche perché fagocitasse l’intero partito.
Ora che vige teoricamente la più ampia democrazia interna, succede addirittura di peggio, Milano essendo anch’essa dominata da un “partito trasversale”.
Quanto accaduto a Genova, dove Burlando negoziava a nome dei Democratici con Toti e Signorini sul panfilo di Spinelli, si è ripetuto nel capoluogo della Lombardia, dove Manfredi Catella rappresentava il partito presso gli sceicchi senza neanche essere iscritto.
Il risultato è, in entrambi i casi, il consolidamento del potere della destra.
Se lo sviluppo della città è deciso tenendo unicamente conto degli interessi degli speculatori stranieri – il “Bosco Verticale” del grande Boeri rimane comunque di loro proprietà – tanto vale che l’amministrazione venga esercitata direttamente da questo settore sociale.
Quanto ai lavoratori, non ne abbiamo mai visto uno avvicinarsi al Nazareno, nei cui pressi passeggiavamo ogni sera durante la nostra “ora d’aria”, trovandoci a Roma.
In cambio, vedevamo sempre un via vai di elegantissime prostitute di alto bordo, di cui si diceva fossero le amanti dei dirigenti, regolarmente piazzate nei posti di sottogoverno.
Se dovesse venire la rivoluzione, non farebbe nessuna differenza tra la maggioranza e l’opposizione.