Se l’indicazione che risulta implicitamente dall’annuncio del “Vertice” tra Putin e Trump in Alaska verrà confermata ...
Se l’indicazione che risulta implicitamente dall’annuncio del “Vertice” tra Putin e Trump in Alaska verrà confermata – come fa prevedere la convocazione di una riunione preparatoria tra le parti, da celebrare in Inghilterra – ciò vorrà dire che si prospetta per l’Ucraina una soluzione di tipo “coreano”: che è l’unica possibile, salvo la deprecata ipotesi di un allargamento del conflitto.
L’Occidente preferisce logicamente evitarlo, per concentrarsi sul Medio Oriente ed, in prospettiva, su Formosa.
È vero che Trump ha parlato di “scambi” di territori, ma una volta entrato in vigore il cessate il fuoco, risulta molto improbabile un ritiro degli opposti eserciti dalle posizioni che hanno raggiunto, o che hanno mantenuto.
L’unico caso in cui ciò non avvenne fu la Croazia, dove gli Occidentali imposero ai Serbi di ripiegare sulla linea di confine tra le repubbliche ex jugoslave.
In questo caso, però, esisteva un soggetto terzo in grado di imporre il rispetto del proprio arbitrato.
Nel caso della Russia, in tanto si può ottenere una cessazione degli scontri in quanto precisamente si accetta il principio che i confini – in questo caso tra le repubbliche ex sovietiche – possono essere ridisegnati, quanto meno de facto, rispettando il criterio dell’appartenenza linguistica.
La conseguente “pulizia etnica” si è peraltro già consumata: chi non era russofono ha infatti dovuto abbandonare i territori invasi.
Se poi la loro annessione rimarrà de facto, ovvero troverà un riconoscimento de jure, diviene a questo punto una questione irrilevante.
Putin ottiene il riconoscimento del suo rinnovato ruolo di grande potenza, quanto meno regionale, e l’Ucraina – in cambio di amputazioni territoriali già consumate e comunque irreversibili – consegue una protezione occidentale sulla sua residua sovranità.
Quanto soprattutto trova conferma è il riconoscimento dell’aspetto più rilevante della politica di potenza, che si estrinseca nell’uso della forza militare: ciascuno si appropria di tutto quanto gli appartiene in base al mero rapporto di forze.
Vedi il caso di Israele, che assume il controllo militare di tutta la Striscia di Gaza, riservandosi di definire lo “status” giuridico che lo garantisca meglio: probabilmente un’amministrazione affidata ai Paesi Arabi.
Che da una parte lasciano mano libera a Netanyahu nei riguardi dei Palestinesi, e dall’altra approfittano della sua protezione contro le ambizioni egemoniche dell’Iran.
Quanto risulta morto e sepolto è il cosiddetto “internazionalismo”, cioè una prassi politica che costituiva il corollario della vecchia prevalenza delle ideologie.
“Il Secolo XIX”, compiacendosi perché i manifestanti di Genova hanno bloccato nel porto un cannone destinato a Israele, pubblica impietosamente la fotografia dello sparuto gruppo di persone che sono riuscite nell’impresa.
Le quali sono così poche che non sarebbero riuscite a bloccare neanche la corsa di un autobus del servizio urbano.
Evidentemente, il Governo ha deciso sua sponte una sorta di embargo – che altri Paesi dell’Europa Occidentale hanno da parte loro proclamato formalmente – nei confronti di Israele.
L’affinità ideologica tra diversi soggetti internazionali non condiziona però più neanche in minima misura le loro scelte.
L’Arabia Saudita è da tempo un alleato oggettivo di Gerusalemme (sempre che non siano già in vigore degli accordi riservati), pur essendo uno Stato confessionale islamico, dove per giunta Israele non figura sulle mappe dei testi scolastici.
Trump non si può considerare certamente un sostenitore della funzione messianica attribuita a Mosca in quanto “Terza Roma”, tanto più da quando – per la prima volta nella Storia – un suo concittadino occupa il Soglio di Pietro, e deve di conseguenza difendere le prerogative della “Prima Roma”.
Il “Tycoon” non esita però a riconoscere come valide – almeno in parte – le pretese accampate dal nuovo imperatore di Russia.
Il fondamento ideologico del potere vale tuttora però in politica interna, costituendo il fondamento dell’autorità esercitata tanto dalle dittature quanto dalle cosiddette “democrature”.
Che hanno tutte in comune l’affermazione di una particolare identità.
Se non vi sono dubbi sull’esistenza di quella propria della Russia, l’identità italiana costituisce – lo ripetiamo ancora una volta – un’invenzione intellettuale ed un’imposizione ideologica.
Che fu tuttavia propria a suo tempo tanto dell’Italia liberale, dopo la sua costituzione in seguito al cosiddetto Risorgimento, quanto – in misura ancor maggiore – dell’Italia fascista.
A partire dalla Liberazione prevalse – insieme con l’affermazione delle ideologie di cui erano assertori tanto i democristiani quanto i comunisti e i socialisti – per l’appunto l’internazionalismo.
Le forze politiche dominanti la Prima Repubblica vissero tutte di rendita sulle cause proprie di altri Paesi: al sostegno offerto dai democristiani agli insorti ungheresi e ai cattolici polacchi faceva riscontro la mobilitazione della sinistra in favore del Vietnam.
In verità, ai dirigenti dell’una e dell’altra parte non importava granché di tutte queste vicende, che venivano strumentalizzate o per sostenere l’adesione ad un sistema di alleanze, o viceversa per avversarlo.
Ora la Meloni deve far dimenticare agli alleati europei dell’Italia le proprie radici ideologiche.
Le vicende di tutti gli altri Paesi del continente dimostrano infatti che in essi vale pur sempre la conventio ad excludendum nei confronti dell’estrema destra.
Così è stato – almeno fino ad ora – in Francia, in Spagna, in Germania e in Austria.
In Italia, però, questa parte politica ha segnato una espansione elettorale inarrestabile, e la destra “moderata” ha scelto di accodarsi.
Mettendo in pericolo la regola – fondamentale nelle democrazie rappresentative – della reversibilità delle maggioranze.
La Meloni non ha infatti perso l’occasione per ripetere quanto già riuscito ai vari Putin, Erdogan, Modi e compagnia.
Abbiamo udito questa mattina su Radio Radicale un giurista affermare che si è applicato il metodo detto “della cottura della rana”: se lo si getta nell’acqua bollente, il batrace salta fuori dalla pentola; se invece lo si mette nell’acqua fredda, l’aumento progressivo del calore lo stordisce, finendo per cucinarlo.
Non fu però questo il metodo seguito da Mussolini, che instaurò progressivamente il regime in un arco di tempo che va dal 1922 al 1929.
La differenza consiste soltanto che Mussolini, alla fine, lo dichiarò, mentre la Meloni nega la sua stessa esistenza.
Se è così, però, non si vede per quale motivo la Presidente del Consiglio sottolinei con insistenza la discontinuità del suo Governo rispetto a tutta la vicenda storica precedente, cui attribuisce il carattere di una degenerazione, mentre a partire dal suo avvento si assisterebbe – secondo lei – a una rinascita.
Ricordiamo bene quando, recandoci a Nizza, ammonivamo i nostri interlocutori francesi sul rischio costituito dall’avere il Terzo Mondo – inteso soprattutto come affermazione di una cultura politica estranea alla tradizione liberale e democratica europea – a Ponte San Luigi, cioè a trenta chilometri dagli eleganti dehors della Promenade su cui consumano tranquillamente ostriche e champagne.
La Meloni è però riuscita a farsi percepire come un fattore di stabilizzazione.
Se gli italiani non possono più praticare l’alternanza al governo, e se viene loro imposta una legislazione autoritaria, il Paese è tuttavia apparentemente tranquillo.
Ecco dunque che i dirigenti di Parigi, di Bruxelles e della stessa Nizza sussumono tutti questi aspetti inquietanti della nostra situazione, ed anzi offrono alle Autorità di Roma un sostanziale sostegno.
La recente visita di una delegazione delle Alpi Marittime a Imperia – a parte i risvolti gastronomici, che hanno messo nel giusto risalto l’opera del nostro amico Osvaldo “Braccioforte” Martini Tiragallo – ha segnato l’accettazione da parte francese di tutto quanto reclamato dal “Bassotto”: anche a nome e per conto della Signora della Garbatella.