Radicalizzazione politica e conflitto locale: da Trump a Imperia– 11 settembre 2025
I sintomi di una progressiva radicalizzazione del confronto politico nei Paesi occidentali si stanno moltiplicando.
Se è vero che lo sciopero generale indetto in Francia da un movimento “di base”, simile ai vecchi Gilets Jaunes e denominato “Blocchiamo tutto”, non è riuscito – data la scarsa adesione e la sporadicità degli episodi di violenza – in America si è invece arrivati all’omicidio politico.

Ne è stato vittima un “grande elettore” di Trump, incaricato di contrastare la sinistra “liberal” e “radical” nel mondo accademico. Questo dirigente di una destra estrema, ma tutt’altro che marginale, verrà inevitabilmente trasformato dalla sua parte politica in un’icona, di cui il movimento aveva urgente bisogno per rilanciarsi, proprio mentre molti esponenti del Partito Repubblicano criticano il Presidente per il silenzio sull’attacco alla Polonia.

L’azione di Putin, non finalizzata a invadere un Paese della NATO ma a saggiare la capacità di reazione dell’Alleanza, ha avuto successo parziale: la difesa territoriale si è dimostrata valida, ma il mancato ricorso all’articolo 5 del Trattato mostra come l’Europa stia di fatto accettando l’abbandono dell’Ucraina, obiettivo politico primario di Mosca.

La presenza di un potenziale nemico ai confini orientali spingerà i governi occidentali a introdurre misure proprie di un’economia di guerra, accentuando la tendenza autoritaria e centralistica. Tuttavia, la contrapposizione tra maggioranza e opposizione – soprattutto in seguito al rifiuto da parte di quest’ultima delle restrizioni ai diritti civili e personali – rischia di produrre l’effetto contrario: la frammentazione territoriale, secondo una moderna applicazione della massima Cuius regio, eius religio, riferita ai diversi orientamenti politici.

Negli Stati Uniti questo processo potrebbe essere più rapido, favorito dalle prerogative che la Costituzione attribuisce ai singoli Stati. La Guerra Civile non scoppiò per un emendamento sulla schiavitù, ma per il semplice sospetto di tale intenzione, benché Lincoln non avrebbe liberato un solo schiavo se ciò avesse minacciato l’Unione.
Oggi, invece, il conflitto nasce da misure già adottate, forzando i limiti della potestà legislativa presidenziale e respinte da governatori e sindaci democratici. La crisi istituzionale è dunque in atto e destinata ad aggravarsi.

Nel 1860 gli abrogazionisti fecero di John Brown un simbolo; ora, la destra trumpiana potrebbe fare lo stesso con il seguace ucciso nello Utah – Stato ammesso all’Unione solo dopo la rinuncia mormone alla poligamia, giudicata allora incompatibile con il principio di uguaglianza che oggi Trump stesso rimette in discussione.

La Francia, forse, ha evitato per ora il caos. Ma se le manifestazioni degenerassero, si assisterebbe a una spaccatura tra le grandi città, segnate da violenze sociali, etniche e religiose, e una provincia conservatrice, più stabile e omogenea. La storia francese offre già esempi di governi costretti a spostarsi da Parigi a Bordeaux – nel 1870 e nel 1940 – o di poteri blindati, come nel 1968, quando De Gaulle dovette cercare il sostegno dei vertici militari tedeschi per mantenere il controllo.

Lo scontro tra estrema destra e sinistra radicale appare oggi inevitabile: il governo potrà solo ritardarlo, non evitarlo. Il risultato comune, in Occidente, resta la frammentazione territoriale, che il centralismo paradossalmente accelera.

Nella nostra realtà locale, il rapporto tra Meloni e Scajola – tra il potere centrale e la “satrapia” periferica – è stato paragonato a quello tra Putin e Lukashenko o tra Xi Jinping e Kim Jong-un. Chi legge la cronaca di Imperia può davvero provare un brivido, osservando il culto del “Sindaco-Presidente”, elevato a figura quasi dittatoriale.

Un tratto tipico delle dittature è l’altalenante sorte dei gerarchi, osservata nelle foto ufficiali e nelle liste dei presenti alle manifestazioni “di massa”. Quella organizzata per le “Vele d’Epoca” è stata invece esclusiva: per evitare nuove contestazioni, è stata definita “privata”, con pochi invitati accolti su un panfilo.

Tra gli assenti di spicco, il quattordici volte presidente Enrico Lupi, escluso nonostante i suoi innumerevoli titoli. Un’assenza che ha provocato un curioso rovesciamento dei ruoli con Osvaldo “Braccioforte” Martini Tiragallo, suo abituale confidente e ora consolatore.

I motivi dell’esclusione non si limitano al carattere di Scajola, ma affondano in divergenze più profonde: il sindaco, incline all’accentramento autoritario, contrasta con la visione di Lupi, fautore della libertà d’impresa e promotore di un nuovo ceto imprenditoriale legato alle “Eccellenze” gastronomiche. Un’iniziativa che il “Bassotto” ha interpretato come atto di sfida.

La sinistra locale, residuo annidato nelle partecipate, si è schierata col potere per debiti politici e riflessi ideologici, opponendosi anch’essa alla libertà d’impresa. Ma può chi agisce da mafioso essere considerato “alleato di classe”?
Pio La Torre si rivolterebbe nella tomba.

Oggi, paradossalmente, Enrico Lupi appare come l’unico oppositore di un potere destrorso.
E Fidel Castro, suo vecchio amico e compagno di sigari, lo definirebbe sorridendo: “Siempre más revolucionario”.

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Mario Castellano  10/10/2025
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