Imperia, Rivieracqua e Ucraina: satira civile e geopolitica
Un nuovo capitolo si aggiunge alla “Via Crucis” inflitta dalla “Rivieracqua” ai malcapitati cittadini di Imperia.
Nove anni or sono, davanti al civico numero 1 di via Diano Calderina, all’altezza della prima curva dello “stradone dei Gorleri” (così lo definirebbe Osvaldo “Braccioforte” Martini Tiragallo), che culmina tanto nel senso letterale quanto nel senso figurato con “Villa Nina”, dimora del “Bassotto” e meta di pellegrinaggi dei suoi seguaci, i quali vi si recano in cerca di grazie per il corpo e conforto per lo spirito, come fanno quelli di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, essendo attribuite ad entrambi virtù sovrannaturali, le piogge misero a nudo la tubazione interrata.
L’esplosione rese necessario installare un tombino.
La causa di tale disastro non fu il terrorismo islamico.
“Mohammed” Bensa, che abita poco più a valle, in una casa ora adibita a moschea privata, all’epoca non era infatti ancora diventato musulmano.
A partire da allora, l’esplosione del tombino si rinnova puntualmente ogni autunno.
La concomitanza temporale con le crisi del Medio Oriente – ripetiamo – non c’entra.
Lo scoppio annuale si è ripetuto la scorsa domenica, con un nauseabondo sversamento di liquami sulla pubblica via.
Sono accorsi sul posto tre vigili urbani.
Il che rivela la maggiore sensibilità istituzionale maturata dal sindaco.
Qualche anno fa, costui avrebbe inviato tre “pallanuotisti”.
Forse però tale sostituzione intendeva esprimere un messaggio rivolto allo stesso Bensa, “Padre Nobile” dei praticanti il “water polo”: il vecchio esercito privato non serve più, dal momento che ora veste l’uniforme delle truppe regolari.
I professori universitari di Ingegneria Idraulica incaricati della conduzione tecnica della “Rivieracqua” ignorano evidentemente quanto rilevato da un “geometro” di nostra conoscenza.
La definizione di “geometro” non è dovuta a un refuso, dal momento che tale titolo indica i più intimi collaboratori dei costruttori edili.
Il semplice geometra si colloca a un livello più basso della gerarchia.
Il tecnico ha osservato che il flusso di acqua in entrata, quando piove, diviene maggiore di quello dell’acqua in uscita.
Risulta evidente l’analogia con quanto avviene in politica: gli ex comunisti staliniani – dotati di maggior forza – premono, facendo saltare le poltrone dei leghisti.
Occorre dunque adottare “radicali provvedimenti”, come avrebbero detto i burocrati frascatani antenati del sindaco, rimuovendo le ostruzioni e installando un tubo di maggior diametro.
Sempre che la “Rivieracqua” abbia il denaro necessario.
Altrimenti assisteremo alla ripetizione dell’esplosione, che potrebbe assumere carattere doloso.
L’attendente bengalese di “Mohammed” Bensa, noto esponente dell’Islam più “radicale”, è stato visto aggirarsi sospettosamente nei dintorni.
Più che i vigili urbani, la situazione dovrebbe dunque interessare i servizi di sicurezza,
che presidiano Imperia fin da quando un ignoto facinoroso tracciò su un muro di Castelvecchio la famosa frase minatoria: “Scajola infame, è il tempo delle lame”.
Da allora, una scorta composta da agenti del SISDE si è aggiunta a quella fornita dai più modesti “pizzardoni” della Polizia Municipale.
Gli storici del futuro scriveranno che la guerra in Ucraina non è finita ieri, in seguito all’“ultimatum” con cui Trump ha intimato a Zelensky di accettare il proprio lodo arbitrale.
Né tanto meno il prossimo giovedì, quando scade il relativo termine.
L’accordo era stato stipulato in Alaska, avendo come corollario lo sfruttamento congiunto – tra russi e americani – delle infinite risorse minerarie dell’Artico.
I conflitti si scaldano e si raffreddano in una curiosa sintonia con il clima.
Quello glaciale dell’Estremo Nord ha sempre favorito le intese.
La prima delle quali venne stipulata tra l’America e la Russia quando l’imperatore Alessandro II cedette agli Stati Uniti, per l’appunto, l’Alaska,
in cambio di una somma di denaro praticamente simbolica.
Ora vi è a Mosca chi suggerisce di denunciare il trattato negoziato dal Segretario di Stato Seward poco dopo la Guerra di Secessione, invocando il suo carattere di “patto leonino”.
Che però non può essere invocato per inficiare gli atti di diritto internazionale.
Né, d’altronde, l’America di allora poteva essere considerata una potenza munita di una forza infinitamente superiore rispetto a quella dell’Impero dei Romanov.
In realtà, una costante della politica estera russa consiste nel non attribuire alcuna importanza a quanto non serve.
Non già dal punto di vista economico – che in Alaska ci fossero miniere aurifere lo si sapeva fin da allora – bensì in termini geo-strategici.
Le risorse naturali presenti sul suo territorio bastano ed avanzano infatti per garantire alla Russia l’autosufficienza energetica.
Lo stesso si può dire per l’autosufficienza alimentare.
Chiunque abbia letto Guerra e pace conosce la divergenza tra il maresciallo Kutuzov e l’imperatore Alessandro I: il generale fermò il proprio esercito sul confine del Nemen, mentre lo zar avrebbe voluto spingersi verso l’Occidente.
Kutuzov accampò il motivo della stanchezza delle sue truppe, ma in realtà la Russia si sentiva tutelata in quanto la frontiera occidentale fosse tracciata a una certa distanza dalle due “capitali”.
Se poi questa frontiera, dopo la Seconda guerra mondiale, fu collocata sull’Elba, lo si dovette al fatto che la natura dei conflitti – rispetto all’epoca napoleonica – era cambiata,
la mobilità dei carri armati essendo ben maggiore di quella della fanteria, o tutt’al più della cavalleria.
Per Putin, riportare il confine militare più a Occidente del Don – la parola “Donbass” indica precisamente il bacino imbrifero di questo fiume – costituiva una questione di vita o di morte del suo Paese.
Valeva però la pena causare una crisi con l’Occidente, e soprattutto sacrificare tante vite umane?
Il fatto stesso di porre tale domanda rivela la diversa percezione della storia che ci divide dai russi,
la cui vicenda nazionale è tutto un susseguirsi di invasioni,
ciascuna delle quali venne fermata, ma li costrinse a una ricostruzione del Paese.
Dopo i Cavalieri Teutonici, respinti da Alexander Nevskij nel 1241, vennero i Tartari di Mamaj, a loro volta rigettati da Dimitrij Donskoj nel 1381.
Nell’epoca detta “dei Torbidi”, seguita alla morte di Ivan “il Terribile”, fondatore del secondo Stato russo dopo il Principato di Kiev, i polacchi giunsero ad occupare Mosca.
La data della loro espulsione ad opera del primo dei Romanov è stata istituita non a caso da Putin come festa nazionale.
Poi vennero le invasioni dell’Età Moderna: quella svedese del 1709, respinta da Pietro il Grande a Poltava, quella di Napoleone ed infine quella di Hitler.
La memoria ancestrale di tante prove – i testimoni dell’ultima sono peraltro ancora vivi – ha modellato l’anima collettiva del popolo.
Trump ha capito, essendo la sua mancanza di cultura storica supplita dall’intuizione propria del mercante,
che bisognava placare i timori non già di Putin, bensì dei suoi sudditi.
Che poi il nuovo imperatore abbia fatto abilmente di questo sentimento collettivo un instrumentum regni è indubbio,
ma l’alternativa era tra imporre il rispetto del diritto internazionale oppure addivenire con la Russia a un modus vivendi che ne placasse i timori, riconducendo questo Paese a una convivenza con l’Occidente basata sul riconoscimento delle reciproche sfere di influenza.
Gli europei e gli ucraini protestano a gran voce, ma gli uni constatano per l’ennesima volta di non esistere, e gli altri di avere prolungato la guerra fin dove era possibile,
come quei malati terminali che prorogano la propria fine mediante le cosiddette “cure palliative”.
Gli europei potevano naturalmente mandare le loro truppe, come più volte minacciato da alcuni di loro.
Ciò avrebbe però significato la guerra mondiale,
che può essere peraltro dichiarata soltanto dagli Stati Uniti.
Trump ha voluto eliminare anche il rischio che questo conflitto finisse per scoppiare.
Anche l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica o nell’Unione Europea era soltanto un “bluff”.
Una volta che ciò fosse avvenuto, sarebbero infatti scattate le clausole in base alle quali diveniva inevitabile la nostra partecipazione al conflitto, e dunque il suo allargamento.
Restava la possibilità che il logoramento facesse implodere la Russia, come era successo per l’Unione Sovietica quando il pagamento delle spese necessarie per mantenere l’Impero era divenuto troppo oneroso per Mosca.
Questa volta, però, non si trattava di far morire i propri soldati in Afghanistan, bensì di ripristinare una sfera di influenza che mettesse al sicuro la Russia.
Il logoramento ha finito dunque per stancare l’Occidente, dividendolo sulla questione delle spese,
che sono risultate eccessive per l’Europa ed ingiustificate per l’America.
Abbiamo già analizzato le possibili conseguenze di una fine della guerra per noi:
può determinarsi tanto un inasprimento del centralismo e dell’autoritarismo, essendo le truppe di Putin arrivate al confine orientale dell’Europa;
può essere però, viceversa, che la constatazione della sua inesistenza causi in Occidente una sorta di scioglimento dei ranghi.
Le due ipotesi non sono necessariamente alternative.
Se la Meloni può battere i pugni sul tavolo, gli italiani possono rispondere domandando a che serva il Governo centrale di uno Stato unitario da cui possono ormai soltanto attendersi repressione, e non servizi sociali.
Quanto alla Russia, non si ispirerà a Stalin, che volle una espansione dei confini occidentali, quanto piuttosto a Kutuzov,
che li fece viceversa coincidere con quelli tracciati all’epoca di Pietro il Grande.
Anche allora, naturalmente, inclusivi dell’Ucraina.
Se qualcuno – per il proprio interesse di bottega – griderà che “Annibale è alle porte”, converrà ricordare che la Russia, in base al pensiero pan-ortodosso dell’Ottocento, che Dugin ha restaurato quale ispirazione del nuovo potere, non mirava alla conquista militare dell’Occidente.
Ciò non significa tuttavia che tale pensiero sia privo di una sua attrattiva sull’esterno,
né, tanto meno, di un richiamo di ordine spirituale.
Gli stessi predicatori cattolici pronti a sollecitare la Chiesa di Roma ad assumere un atteggiamento di ostilità nei confronti della Russia sono gli stessi che lamentano la scristianizzazione dell’Occidente, la sua progressiva mancanza di ispirazione spirituale:
precisamente, cioè, i vizi denunciati da Dugin.
Una Russia teocratica – più ancora che confessionale – capace di interpretare la propria funzione storica di “Terza Roma” e di incarnare l’ideale cristiano potrebbe costituire per l’Occidente non già un soggetto intenzionato a provocare o sostenere insurrezioni destinate a fallire – come succedeva nell’era dell’Unione Sovietica – né tanto meno una potenza militare pronta a forzare i confini, quanto piuttosto un punto di attrazione spirituale, il luogo di un’utopia religiosa realizzata,
al quale si rivolgerebbero quanti all’utopia non intendono rinunciare e che, nel suo nome, abbracciano religioni diverse dal Cristianesimo, di cui invece l’Ortodossia fa parte.