Memoria civile, cultura milanese e rimozione dell’identità
Nel 1956, quando ancora frequentavamo la prima elementare, udimmo alla radio la notizia della morte di Arturo Toscanini.
Naturalmente vennero illustrati i grandi meriti artistici del Maestro.
Quando si dovette riferire del suo esilio in America (Toscanini, figlio di uno dei “Mille” di Giuseppe Garibaldi, aveva dapprima aderito al fascismo sansepolcrista, cui contribuì con generose elargizioni, ma poi – avendo il regime mostrato il suo vero volto illiberale – decise di espatriare), lo speaker disse semplicemente che “gli Americani ce lo portarono via”.
Come se la condizione di “fuoriuscito” non fosse stata motivata da un dissenso politico, bensì da un volgare compenso in dollari.
In quel tempo non si arrivava a riabilitare esplicitamente il fascismo, ma si occultavano le ragioni dei suoi oppositori, come se tale tendenza costituisse una vergogna da nascondere.
La vergogna consisteva piuttosto nell’adesione di massa alla dittatura, che alcuni uomini liberi – come per l’appunto Toscanini – avevano compensato con la propria scelta.
Questo precedente ci è venuto in mente considerando il modo in cui la radio ha dato la notizia della morte di Ornella Vanoni.
Non sappiamo se questa artista abbia mai reso esplicite le proprie scelte politiche.
Se lo avesse fatto, rievocarle nel momento della sua scomparsa sarebbe risultato divisivo.
La funzione dell’arte consiste infatti proprio nell’unire le persone nella comune contemplazione della creatività e della bellezza.
Ciò premesso, non è casuale che in un momento come l’attuale si sia omesso di dire che la Vanoni apparteneva a pieno titolo a un ambiente intellettuale particolarmente illuminato e per vocazione progressista: quello, cioè, di un’intellettualità milanese che avrà pure manifestato – in qualche caso – un certo snobismo, ma senza mai venir meno al rigore e alla coerenza.
La Vanoni si era infatti formata come attrice – prima che come cantante – alla grande scuola di Giorgio Strehler, il quale, essendo triestino di origine, aveva esteso all’Italia l’influenza della grande cultura mitteleuropea, con cui anche la sua città di adozione era sempre stata a contatto.
Milano è chiamata in tedesco “Mailand”, che significa letteralmente “terra di mezzo”: la sua arcidiocesi, sconfinando nel Ticino, si estendeva un tempo fino ad Airolo, confinando sul Gottardo con Zermatt e con le genti che parlano questa lingua.
Milano aveva però anche risentito dell’Illuminismo francese, incarnato in Italia da Cesare Beccaria, progenitore di Alessandro Manzoni, la cui Storia della colonna infame si può considerare la conclusione di un ragionamento intrapreso dal suo antenato in Dei delitti e delle pene.
Milano venne scelta da Napoleone come prima capitale di uno Stato unitario italiano, costituito dapprima come Repubblica e poi come Regno, di cui il Bonaparte si era proclamato capo incoronandosi nel Duomo.
Melzi d’Eril, uno dei tanti esponenti dell’aristocrazia illuminata lombarda che, insieme con i fratelli Verri, Porro Lambertenghi e Confalonieri, compose la prima classe dirigente di un’Italia finalmente unita, fu presidente della prima Repubblica italiana, durata dal 1802 al 1804.
Da allora una successione di generazioni milanesi ha accompagnato e promosso lo sviluppo civile del nostro Paese, passando per il Risorgimento – di cui furono teorici uomini come Carlo Cattaneo e combattenti Cesare Correnti ed Enrico Cernuschi – fino a giungere all’antifascismo e alla Liberazione.
Che Ornella Vanoni, anch’ella figlia della grande borghesia lombarda, fosse erede di questo filone intellettuale era doveroso ricordarlo.
Lo si è invece taciuto, come se citare tale origine risultasse sconveniente.
La Meloni, appena insediata alla Presidenza del Consiglio, ha voluto presenziare alla “Prima” della Scala, la sera di Sant’Ambrogio, commettendo una gaffe nella quale soltanto una parvenue come la borgatara della Garbatella poteva incorrere, sedendo ostentatamente nel Palco Reale, nel posto riservato al Capo dello Stato.
Come era già successo per un altro arricchito, altrettanto pretenzioso e volgare, i tradizionali ricevimenti detti “Dopo Teatro”, offerti dalla crème della città, le hanno rifiutato l’invito.
Ciò nondimeno, il Corriere della Sera, già organo della grande borghesia lombarda, conservatrice ma non prostituita al potere romano, l’ha fatta intervistare dall’intera redazione.
Tale onore non era mai stato riservato a nessun altro.
Segno questo non solo dell’avvento del nuovo regime, ma anche di un atteggiamento di ossequio nei suoi confronti che oggi si rivela nuovamente, manifestando vergogna per un passato di cui Milano dovrebbe invece andare orgogliosa.
“Chi fur li maggior tui?”, domanda Farinata degli Uberti a Dante, il quale glieli rivela, essendone fiero.
Anche noi siamo invece ridotti a nascondere la nostra ascendenza.
Il “Bassotto” non manca mai ai funerali degli ultimi esponenti della borghesia locale.
L’uomo intende infatti appropriarsi della loro eredità politica e morale, come anche di quella di Oneglia “rossa”, i cui epigoni fanno la coda per questuare prebende.
Notiamo doverosamente che i vecchi democristiani si sono invece ritirati a vita privata, dimostrando quantomeno maggiore dignità.
Il sindaco avrebbe ricompensato anche loro.
Quanto meno si è segnata una discontinuità rispetto a un passato che non gli appartiene.
Anche noi, però, preferiamo rimuovere la nostra memoria, come rimuoviamo perfino le motivazioni della situazione presente.
Il parroco di Oneglia è stato aggredito in chiesa da un musulmano.
Noi non siamo razzisti come i dirigenti della Lega e dunque non estendiamo la responsabilità di questo gesto ad altri che non siano il suo autore materiale.
La giustizia dovrà chiarire se vi siano stati dei mandanti ed estendere anche a costoro la giusta sanzione.
In attesa di ciò, constatiamo come certi nostri concittadini convertiti all’Islam, presi dall’entusiasmo dei neofiti, si astengano dal pronunciare una sola parola di dissociazione.
Se per Enrico di Navarra Parigi valeva bene una messa, per costoro la recita di un versetto del Corano vale bene l’assistenza di un badante, peraltro ben retribuito.
Quanto più grave risulta però l’immediata e aprioristica esclusione di ogni motivazione religiosa del gesto sacrilego, consumato ai danni di un ministro del culto in un luogo di culto.
Anche gli autori materiali dei peggiori crimini sono peraltro etichettati tutti quanti come “malati di mente”, “alcolizzati” o “drogati”, quantomeno come povere vittime dell’emarginazione sociale.
Dire chiaro e tondo che il movente è religioso non significherebbe cadere nella cosiddetta “islamofobia”, nella quale incorre solo chi, generalizzando arbitrariamente, pretendesse di considerare come terroristi tutti i musulmani.
Se il movente dei delitti è un’interpretazione errata delle loro Scritture, basta dire chiaramente che non la si condivide.
Si pretende viceversa di far credere che non sia mai questa la causa della violenza.
Mentre ci si astiene dal denunciare l’estremismo islamico in quanto ciò risulterebbe “politicamente scorretto”, qualcun altro – più coerentemente – invoca la cultura cosiddetta “woke” per classificare i peggiori comportamenti delinquenziali come “atti di resistenza”, compiuti da chi si oppone all’ingiustizia causata dal colonialismo, e naturalmente perpetuata dall’imperialismo.
Gli avvocati difensori dei terroristi del Bataclan hanno invocato addirittura un difetto di giurisdizione del tribunale, in quanto la Francia – prima della strage – era entrata in guerra contro l’Islam.
Se si accetta questo punto di vista, dovremmo subire gli atti di terrorismo senza poter agire contro i loro autori in sede penale.
Passi per le autorità di Parigi, che avevano ordinato di bombardare Gheddafi, ma il Papa non ha forse offerto un’“alleanza” ai musulmani?
Evidentemente vi è tra costoro chi la interpreta come un’alleanza diseguale.
Come vi è tra i cristiani chi, pur di non incrinarla, ritiene si debbano subire fatti come l’aggressione ai danni del malcapitato monsignor Ferrua senza reagire e senza neppure protestare, essendo l’energumeno entrato in azione in San Giovanni, a suo modo, un “resistente” (?!).
A parte il fatto che costui non sembra resistente all’alcol, vi è da una parte chi interpreta la propria identità – si tratti dei seguaci della Meloni o di quelli dell’Islam – come autorizzazione a commettere ogni coercizione sui diversi; e vi è chi crede di fermare tale violenza negando la propria identità, che è dunque destinata a scomparire, si tratti di quella dell’Illuminismo lombardo o addirittura dell’identità cristiana.